Il petrolio è ancora Re: tra guerre e dazi il barile non conosce crisi

Mai visto nulla del genere. Sette bombardieri B2 Spirit che sganciano bombe sui siti nucleari iraniani.

Tutti a chiedersi se gli ayatollah avrebbero chiuso lo stretto di Hormuz, da dove passa il 30% del greggio mondiale, con la certezza di mandare in tilt l’economia globale e rinfiammare l’inflazione.
Nelle prime ore dell’attacco gli analisti a vaticinare di balzi di prezzo fino a 200 dollari al barile. Poi una tregua imposta ai contendenti e una strizzatina d’occhio da parte dell’imprevedibile presidente americano agli stessi iraniani, con una sorta di via libera informale a vendere tutto il petrolio che vorranno alla Cina, e tutto è passato.
Una settimana di ordinaria follia.
Con il prezzo del barile balzato a 76 dollari e poi repentinamente crollato a 65. Paura e sollievo per l’economia globale in un battito di ciglia. Trump che muove le sue portaerei come pedine di una scacchiera, i sauditi che, come da copione, mantengono un silenzio enigmatico, Russia e Cina spettatori.

LA DIPENDENZA

Ma c’è un dato essenziale che continua a passare quasi inosservato: quanto il mondo ancora dipenda quotidianamente dal petrolio. Nessun altro elemento naturale ha agito come forza trasversale tra politica, economia, società, ambiente, relazioni internazionali. Il petrolio non è solo una risorsa: è un potere. È sia sostanza fisica che simbolica del mondo moderno. Il Re Petrolio non si è limitato a fornire energia: ha dettato agende, provocato guerre, plasmato imperi e sbriciolato altri. Con i suoi 37 miliardi di barili all’anno alimenta il cuore di un mondo che ancora oggi non riesce a immaginarsi davvero senza. Hormuz, si diceva. L’aorta che parte dal cuore della produzione nelle sabbie del Golfo Persico: Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti. Le magnifiche cinque del Golfo Persico hanno sotto i loro piedi oltre il 60% delle riserve petrolifere provate mondiali. Dall’altra parte della scacchiera ci sono i grandi consumatori: Cina in primis, con oltre 15 milioni di barili al giorno, seguita dagli Stati Uniti, che pure hanno riconquistato il ruolo di grande produttore grazie allo shale oil, ma non hanno abbandonato la fame energetica. L’India avanza silenziosamente, e l’Europa resta la più vulnerabile alle dinamiche del mercato globale. Il petrolio, però, non è solo carburante. È materia prima, secondo alcune stime, di oltre 70.000 prodotti della chimica e della plastica. Dal tessuto tecnico delle nostre scarpe sportive al flacone dello shampoo, dai fertilizzanti agricoli ai farmaci, alla cosmesi fino ai chip, ai pannelli solari e alle pale eoliche stesse: viviamo letteralmente immersi in un mondo petrolchimico. E poi ci sono le sue arterie: oleodotti che attraversano interi continenti – dalla Siberia all’Europa, dal Mar Caspio al Mediterraneo. Le rotte marittime, veri teatri strategici globali: appunto Hormuz, la porta di uscita di oltre il 30% del petrolio trasportato quotidianamente, o se ci spostiamo allo stretto di Bab el-Mandeb, che collega il Mar Rosso al Golfo di Aden, dove agiscono i ribelli Houthi dello Yemen, fino al Canale di Suez o le strette vie di Malacca. Le grandi petroliere, enormi, lente, vulnerabili, sono strumenti geopolitici prima ancora che logistici. In loro si nasconde il prezzo della pace e della guerra. Basta ricordare la cosiddetta “flotta fantasma” di Putin. Parlare del petrolio è difficile. Lasciamo stare l’avventurarsi nelle previsioni del suo esaurimento. Oggi chi lo studia spesso si concentra su tre lati: economico, ambientale, tecnico. Altri lo demonizzano, altri ancora lo mitizzano. Ma pochissimi ne colgono la natura totale. Perché il petrolio è onnipresente, anche dove crediamo di esserne liberi. E la più grande delle sue contraddizioni si manifesta nel suo prezzo. Non segue una logica lineare, non è una formula chimica, né una legge fisica. A volte dipende dai costi di produzione, o dalla raffinazione, a volte dalle aspettative economiche o dalle tensioni geopolitiche, pandemie, altre ancora dalle dichiarazioni dell’Opec o da guerre. Ma può anche essere frutto di una speculazione finanziaria lontana migliaia di chilometri dal primo pozzo. Il venerdì 13 giugno 2025, proprio il giorno in cui Israele ha lanciato un’offensiva su vasta scala contro l’Iran, alla borsa Ice di Londra, i contratti futures sul Brent hanno registrato un picco di 1.243.109 scambi. Considerando che ogni contratto rappresenta 1.000 barili, significa che in un solo giorno ne sono stati scambiati virtualmente oltre 1,24 miliardi. Nel frattempo, al di là della variazione del prezzo, la produzione globale effettiva di petrolio è attestata ai soliti circa 104 milioni di barili al giorno. E la domanda è praticamente allineata. Non c’è quindi una crisi fisica, né scarsità reale. È il dominio del “paper barrel”, il barile di carta. Una finanza del petrolio che moltiplica all’infinito i volumi scambiati, rialza o abbassa i premi di rischio, alimenta aspettative, e — soprattutto — si muove sotto il segno del dollaro americano. Insomma, il suo prezzo si alza, si abbassa, anticipa, crolla, rimbalza. E spesso non risponde a nulla di ciò che lo produce. Non c’è una regola. Il petrolio ci domina due volte: nella vita quotidiana e nei nervi della finanza globale. Oggi si parla di transizione, di rinnovabili, di abbandono delle fonti fossili. Ma troppo spesso si dimentica che gran parte di questa narrazione riguarda solo la produzione elettrica che rappresenta appena il 20% del consumo energetico finale globale. E il restante 80%? È ancora dominato dal petrolio. Ma chi è davvero pronto a farne a meno? Chi può rinunciare a tutto ciò che esso sostiene, senza una reale, concreta, standardizzata e globale alternativa – ambientalmente, socialmente ed economicamente sostenibile? Qui sta il punto. Perché, se continuiamo ad usarlo ignorando le conseguenze, ci condanniamo al collasso climatico. Ma se lo abbandoniamo bruscamente, il rischio è quella che è stata definita “l’apocalisse silenziosa”: un crollo sistemico, invisibile, ma devastante. Un risveglio brusco in un mondo impreparato, dove ci accorgeremmo – troppo tardi – di quanto eravamo e siamo ancora legati al Re.

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