Alberto Bombassei: «E’ la nostra occasione. L’Italia locomotiva della nuova Europa»

Alberto Bombassei, lei ha creato un’azienda dal nulla. Ricorderà i suoi primi passi, le sue prime paure e gioie nell’affrontare l’avventura imprenditoriale. Oggi la sua Brembo è un leader mondiale nel settore dei freni, un’eccellenza universalmente riconosciuta del Made in Italy. Che cosa consiglierebbe ai giovani che hanno un’idea e sognano di trasformarla in un’impresa? Sempre che ci siano le condizioni per sognare.

«Le condizioni non mancano. Cosa sono le start up se non idee imprenditoriali che devono prendere forma? Rispetto al passato sono però necessarie competenze più ricche e istituzioni in grado di supportarle. Non si può dire che in Italia manchi spirito imprenditoriale e la possibilità di metterlo in pratica: lo verifichiamo quotidianamente nel nostro Kilometro Rosso, dove noi accompagniamo lo sviluppo di molte start up innovative. Forse ciò che manca è una più stretta collaborazione tra privato e pubblico, un percorso che andrebbe privilegiata».

Faccia un esempio.

«La Cassa depositi e prestiti sta facendo un ottimo lavoro in questo senso».

È serrato il dibattito sulle restrizioni che si vorrebbero introdurre in materia di delocalizzazione produttiva. Quanto è importante attrarre imprese nel nostro Paese? E perché un’azienda italiana sceglie di spostare la produzione altrove?

«Confindustria fa bene a esprimere dissenso su una normativa, che per fortuna in parte disinnescata, che rischiava di rendere meno attraente il nostro Paese agli occhi delle grandi aziende straniere. Quanto a noi, Brembo ha stabilimenti in tutto il mondo dove produce per i mercati locali. È una necessità imprescindibile per restare competitivi. Ogni volta che abbiamo dovuto decidere dove far nascere un nuovo stabilimento si è scatenata in Europa, negli Stati Uniti e nella stessa Cina una gara dei vari territori ad ospitarci. Negli Stati Uniti si sono scomodati governatori importanti per convincerci a scegliere questo o quello Stato. E noi invece di agevolare i nuovi arrivi, proponiamo paletti…».

Converrà che spedire lettere di licenziamento via whatsapp senza alcun preavviso non è il massimo dell’eleganza.

«È ovvio che non si licenzia con un messaggio su un social network e un provvedimento che limiti questi atteggiamenti va individuato, ma è doveroso tentare di imitare i paesi più virtuosi, quelli che hanno capito che una grande azienda non solo crea occupazione diretta ma spesso anche un indotto capace di fare la fortuna di un territorio».

Il Reddito di cittadinanza, così come formulato, sta producendo evidenti distorsioni nel mercato del lavoro. Come riformarlo?

«Il principio è corretto, una forma di supporto per chi non ha reddito va confermata. D’altro canto, chi ha potuto fare qualche giorno di vacanza ha probabilmente verificato quanto fosse evidente la mancanza di personale per i tradizionali servizi legati al turismo. Certo, spesso sono lavori stagionali, in cui è richiesta flessibilità. Lavori in cui strumenti come i voucher, accantonati troppo in fretta, garantivano tra l’altro l’emersione del nero che spesso si accompagna al Reddito. La buona notizia è che il governo lo vuole modificare».

Le tensioni sugli ammortizzatori sociali rischiano di ostacolare la ripartenza.

«Più in generale va presa coscienza che difendere ad ogni costo il posto di lavoro molto spesso è una partita persa. Detto ciò è indispensabile, fin quando possibile, proteggere le persone e la loro occupazione con ammortizzatori e formazione ma, soprattutto, occorre prendersi cura della loro occupabilità. Il sostegno al reddito durante le situazioni di difficoltà, è giusto che diventi strumento “universale”. È anche giusto però diversificarne le prestazioni, le contribuzioni e il funzionamento in relazione alle specifiche necessità dei diversi settori d’impresa».

Si è fatto molto rumore sulla valanga di licenziamenti estivi, gli ultimi dati Istat vanno però in direzione opposta.

«Evidentemente si trattava di una preoccupazione, pur legittima, ma eccessiva. Per quanto ci riguarda, nell’anno di pandemia abbiamo assunto circa 400 persone. Detto questo non bisogna stancarsi di ripetere che va sciolto il nodo dei Neet: 2 milioni di giovani “congelati” nella totale inattività sono un problema sociale che va risolto».

Il Covid ha paralizzato l’attività produttiva italiana, europea e mondiale. Il vaccino l’ha fatta ripartire. Che cosa pensa dell’obbligatorietà del Green pass in azienda?

«Credo nella ricerca e nella scienza. E sono orgoglioso che la qualità e la collaborazione degli scienziati di tutto il mondo abbia saputo trovare in poco tempo una soluzione vaccinale alla crisi sanitaria. Fatico a commentare le posizioni di chi disserta di libertà individuali in una situazione come questa».

Imprenditori e lavoratori hanno un compito essenziale, ciascuno nel proprio ruolo, per far ripartire il Paese. È possibile che, approfittando di questo nuovo inizio, l’Italia riconquisti una posizione centrale nell’Unione?

«Imprenditori e lavoratori hanno tenuto in piedi il Paese durante questi lunghissimi 19 mesi di crisi pandemica. Sono tra coloro che credono che dalle crisi nascono le opportunità. E a mio avviso le condizioni per riconquistare un ruolo centrale in Europa ci sono. Se non vincono gli egoismi e i veti incrociati, possiamo farcela».

Sono arrivati i primi soldi del Recovery Plan. L’Italia è il Paese che ha ottenuto più risorse. Basteranno i 230 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza?

«È una grande, forse l’ultima occasione per restare nel novero dei grandi, in Europa e nel mondo. Non solo per l’entità straordinaria delle risorse che potremo investire ma perché queste risorse arriveranno solo se il percorso di riforme che è stato negoziato verrà compiuto. Sono convinto che la riforma della giustizia, della pubblica amministrazione, del fisco previsti dal Pnrr avranno, sulla competitività del Paese, effetti più significativi di quanto non ne produrranno i miliardi del Recovery».

Nonostante le difficoltà incontrate di dover riferire a una maggioranza instabile, finora il governo Draghi sembra avere centrato l’obiettivo della discontinuità con il passato. Ce la farà a reggere?

«Dipende molto da come la politica, o meglio i partiti, sapranno affrontare questo periodo di rifondazione del Paese. Se non privilegeranno il proprio consenso a scapito degli interessi nazionali e se sapranno essere leali con un governo che rappresenta il Paese con un’autorevolezza raramente riscontrata in passato, allora ce la faremo».

In Europa stanno mutando gli equilibri, la Brexit e il cambio della guardia imminente in Germania e Francia ne stanno indebolendo l’ossatura. Ce la vede l’Italia alla guida dell’Unione?

«Siamo un Paese che ha risorse straordinarie anche se non sempre ne abbiamo consapevolezza. Abbiamo tutto ciò che serve per assumere un ruolo trainante all’interno della Ue. La credibilità internazionale di Mario Draghi è un patrimonio che dobbiamo saper valorizzare. Certo ci vogliono infrastrutture, ci vogliono le riforme, ma ci vuole una presa di coscienza delle nostre qualità, dobbiamo convincerci di essere un grande Paese. E non solo per la straordinaria varietà del territorio, il patrimonio artistico, il cibo invidiabile, ma anche per l’industria, per l’eccellenza della nostra manifattura: un valore di cui non c’è sufficiente coscienza».

Parliamo di auto. L’avvento dell’elettrico significa un cambio radicale nella meccanica di una vettura. Avranno ancora ruolo i freni tradizionali di cui siete fra i principali produttori nel mondo?

«Fortunatamente sì. Magari non sarà più il conducente ad azionarli ma sarà il veicolo stesso a utilizzarli autonomamente. Questo non significa che la tecnologia necessaria per accompagnare la rivoluzione della mobilità che stiamo vivendo non imponga uno straordinario sforzo in ricerca e innovazione. Ma Brembo è abituata a farlo da sempre, attualmente investiamo più di 100 milioni l’anno in R&D, lo sforzo è essere sempre un passo avanti sul resto del mercato. Finora ci siamo riusciti».

Come vede il futuro del settore auto nel suo insieme? Le imprese di componentistica saranno capaci di affrontare la sfida?

«Sono stato tra i primi a denunciare il grande rischio occupazionale che il progetto europeo (“Fit For 55”, ndr) sull’auto elettrica rischia di generare nel mercato della mobilità. I motori endotermici e quelli diesel in particolare sono stati forse troppo demonizzati mentre un approccio olistico al problema delle emissioni di CO2, pure emergenziale, sarebbe stato auspicabile».

C’è spazio per modificare la norma? Si sostiene che il processo costerà non meno di 1 milione di disoccupati nella sola Europa.

«La normativa Ue è nata anche sull’emotività del dieselgate. E di solito l’emotività non porta buone leggi. Ma ormai la strada della mobilità elettrica pare imboccata e dovremo gestire le riconversioni, e le potenziali crisi, anche dei molti componentisti italiani legati a produzioni per i motori tradizionali. Sul tema della sostenibilità ambientale ho notato un approccio saggiamente pragmatico del ministro Giorgetti. L’asimmetria tra gli obiettivi di neutralità climatica tra l’Europa e il resto del mondo, Cina e Stati Uniti in primo luogo, non sono compatibili con una competizione globale e leale. Non possiamo perseguire solo la sostenibilità dimenticando quella sociale ed economica».

In tema di lavori futuri e di mercato del lavoro, che cosa si debbono aspettare le nuove generazioni?

«Ho sempre sollecitato l’attenzione delle istituzioni e promosso lo sviluppo della scuola tecnica che rappresenta un bacino di competenze fondamentali per la manifattura del Paese. Naturalmente non è semplice formare ragazzi a svolgere attività che cambiano con una velocità che non abbiamo mai visto prima. La tecnologia anticipa la possibilità dei ragazzi di acquisire competenze specifiche e aggiornate. La strada maestra è l’aggiornamento costante della conoscenza tecnica ma va addestrata la flessibilità e la visione larga dei problemi. E questa è una qualità che nel nostro Paese non è certo rara».

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