Cryptovalute, ecco cosa c'è dietro il crollo della piattaforma Ftx

Il 9 dicembre 2018 Gerald Cotten, un 30enne alla guida di uno dei più promettenti exchange di criptovalute canadesi, scomparve in condizioni misteriose durante un viaggio in India insieme alla moglie: con lui se ne andarono 250 milioni di dollari in moneta digitale, visto che solo Cotten aveva le chiavi per accedere al denaro investito su QuadrigaCX, la piattaforma che aveva fondato nel 2013.

La storia di Cotten, i dubbi sulla sua morte, le discrepanze che ancora oggi avvolgono la vicenda sono ben raccontate in un docufilm prodotto da Netflix (Trust No One: The Hunt for the Crypto King), un resoconto di come in pochi secondi milioni di criptovalute – spesso i risparmi di investitori che non avevano alcuna intenzione di speculare – possano andare in fumo.

 

LA LEZIONE IGNORATA

 Sembra però che la vicenda Quadriga non abbia insegnato molto: in questi quattro anni le monete virtuali hanno continuato a salire e scendere in modo repentino, sono nate decine di altre piattaforme su cui scambiare cryptocurrency, si è discusso tanto sui limiti e i rischi, ma non si è fatto nulla di concreto. La notizia della bancarotta di FTX arrivata pochi giorni fa è solo l’ultimo episodio di una tragedia dalla trama più che prevedibile. Davanti a un tribunale del Delaware, negli Stati Uniti, il giovane proprietario di FTX, il tanto celebrato prodigio Sam Bankman-Fried, ha spiegato che un significativo numero di beni della sua piattaforma erano stati «rubati o andati persi». Una prima analisi dice che dai conti mancano almeno due miliardi di dollari, per una piattaforma che nel gennaio del 2022 era stata valutata 32 miliardi, collezionando investitori di alto profilo come SoftBank e BlackRock: oggi vale zero. La bancarotta e la possibile frode architettata da Bankman-Fried (cognome profetico, tradotto in italiano significa “uomo di banca fritto”) fanno discutere da giorni economisti, analisti e politici, che sembrano essere concordi su un elemento: il collasso di FTX potrebbe non essere il solito incidente passeggero. Saremmo infatti arrivati al ground zero delle crypto, al “momento Lehman”, con riferimento alla banca d’affari americana Lehman Brothers che nel 2008 provocò una crisi finanziaria globale, mostrando quanto Wall Street fosse debole e spregiudicata. John Ray III, il liquidatore nello scandalo Enron, incaricato del caso FTX dalla Corte del Delaware, ha detto di non aver mai visto in 40 anni di professione «un tale fallimento completo di controlli societari o di assenza totale di informazione finanziaria credibile come in questo caso».

In effetti, già questa estate il Wall Street Journal aveva spiegato in un lungo e informatissimo articolo che il mondo delle crypto fosse da sistemare e che l’eccitazione pionieristica da Wild West fosse ormai al tramonto. Titolo: «Il party delle crypto è finito». L’articolo spiega che dal picco del novembre 2021, le criptovalute hanno perso oltre 2.000 miliardi di dollari a livello globale. Una catastrofe silenziosa. Il valore del Bitcoin, per esempio, ha perso quasi l’80% dal massimo storico del novembre 2021 quando valeva 67.802 dollari: oggi vale poco più di 16.000 dollari.

L’IMPETO PIRATESCO

È importante questo riferimento al Bitcoin, perché si tratta della principale moneta digitale, indiscusso punto riferimento per tutte le criptovalute che sono venute dopo. Dall’impeto piratesco dei primi anni, le crypto sono cresciute di numero e di “valore” a una velocità impressionante, hanno attirato libertari, anarchici, attivisti innamorati della forza democratica di internet. Non solo: sono servite e servono anche per evadere tasse, riciclare denaro, finanziare affari illegali, droga, armi, pornografia. Sono anche arrivate in Borsa, nell’aprile del 2021 quando Coinbase Global – la più grande piattaforma per lo scambio di monete virtuali degli Stati Uniti – ha presentato la sua Ipo con una valutazione di 85 miliardi di dollari. È un mondo paradossale che poggia su acronimi come Yolo (You only live once, vivi una volta sola) coniato dal rapper Kendrick Lamar dieci anni fa, suggerendo di vivere al momento senza pianificare bilanci o disponibilità finanziaria. Ed è in sintonia con un altro postulato della Silicon Valley per ottenere fondi da investitori: Fake it until you make it (tradotto: menti fino a quando non ce la fai più). Negli ultimi anni hanno collezionato testimonial illustri come Matt Damon, che nel 2021 diceva «la fortuna aiuta gli audaci» in una pubblicità per la piattaforma di Singapore Crypto.com. E nell’ultimo Super Bowl la star dell’Nba, LeBron James, ricordava ai milioni di spettatori che «se vuoi fare la storia, devi cogliere l’occasione», sponsorizzando Crypto.com. In questa confusione di regole non scritte, tracolli finanziari, aura da evento alla moda da non perdere per nessun motivo, i governi non hanno ancora fatto pressoché nulla per creare delle regole chiare e univoche. In un commento pubblicato sul New York Times, il Nobel Paul Krugman sostiene che questa volta la bancarotta di FTX potrebbe innescare una crisi sistemica, come quella della bolla dotcom che alla fine degli anni ’90 decimò il settore tecnologico, ma che allo stesso tempo ha posto le basi dell’economia degli ultimi 20 anni. Per Krugman «l’ecosistema crypto si è sostanzialmente evoluto esattamente in ciò che avrebbe dovuto sostituire: un sistema di intermediari la cui capacità di operare dipende dalla loro affidabilità percepita». Una forma nuova e digitale di banca, che tuttavia – continua l’economista – non gode di nessuna garanzia da parte degli Stati, e quindi è totalmente esposta a qualunque tempesta. Del resto, «non si conosce quanto» la crisi finanziaria legata alla bancarotta di FTX «abbia inquinato il mercato mobiliare – ha osservato di recente Paolo Savona, presidente della Consob italiana – ma, dopo gli annunci della crisi delle collegate di FTX, è seguito quello di altre società che hanno sospeso i rimborsi; alcune hanno segnalato quanto erano esposte rispetto a FTX, ma altre non l’hanno fatto per timore di reazioni da parte dei clienti ben sapendo che la liquidità disponibile non l’avrebbe consentito»

ARRIVANO LE BANCHE CENTRALI

 Intanto, diversi governi stanno sperimentando una loro cryptocurrency e pare che il prossimo confronto tra Cina e Stati Uniti per il controllo globale sarà combattuto anche con le monete digitali. Un’autocrazia come la Cina si sta muovendo su due livelli: nel 2021 ha vietato le crypto sia per motivi di sicurezza che per i costi legati alle attività di mining, che prevede un enorme consumo di energia. Nonostante ciò, Pechino da oltre otto anni sta lavorando allo yuan digitale, che gli consentirebbe di incrinare l’egemonia del dollaro quale moneta globale. Avrebbe voluto presentarlo nel corso delle Olimpiadi invernali del 2022 ma poi il piano è saltato. All’estremo opposto c’è El Salvador, un paradiso fiscale per i milionari delle crypto che possono parcheggiare il loro denaro, fare attività di mining senza spendere un centesimo. A loro volta, gli Stati Uniti da anni oscillano tra l’esigenza di regolamentare il mercato e l’interesse a non porre un freno alla sua crescita: lo scorso marzo con un ordine esecutivo il governo Usa di Joe Biden si è impegnato a regolamentare il settore, con l’obiettivo di implementare standard che possano diventare di riferimento a livello internazionale. E qui il ragionamento di Krugman torna utile: se gli Stati Uniti interverranno, gli exchange sulle crypto non potranno più promettere rendimenti incredibili e diventerebbe «difficile capire quale vantaggio queste società avrebbero rispetto alle banche ordinarie». E allora il ground zero delle crypto potrebbe trasformarsi nella fine del settore finanziario più alla moda degli ultimi anni.

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