Green deal, Bruxelles cambia passo e apre alle riformulazione delle regole. Dall'auto alla casa ecco cosa cambia

Doveva essere la “fase 2”, quella dell’attuazione degli obiettivi, ma a giudicare dagli sviluppi in concreto quella intrapresa da una manciata di mesi sembra più una retromarcia.

Bandiera della Commissione europea nel mandato che adesso volge al termine, all’ultimo giro di boa della legislatura il Green Deal annaspa e fatica a rimanere a galla tra le priorità del nuovo corso che si aprirà dopo il voto Ue di giugno. Certo, il capitale politico investito negli scorsi cinque anni è tale che nessuno, nell’attuale maggioranza di larghe intese Ue – a cominciare dalla madrina Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione attuale (e probabilmente futura) –, si spinge a rinnegare principi e ambizioni del Green Deal. Su tutte, quella di rendere l’Europa il primo continente al mondo ad azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050, diventando così climaticamente neutrale, coerentemente con il target, figlio dell’Accordo di Parigi del 2015, di contenere il riscaldamento medio globale al massimo entro 1,5 gradi Celsius rispetto al periodo preindustriale. Un proposito a cui Bruxelles tiene fede, tanto che rilancia sull’obiettivo di tagliare del 55% la CO2 prima della fine del decennio, rispetto ai valori di riferimento del 1990, e di portare nello stesso orizzonte di tempo la quota di rinnovabili nel mix energetico al 42,5% con l’opzione di arrivare fino al 45%. Ma l’Ue apre al dialogo e alle riformulazioni, di fronte ai settori produttivi che, dall’industria all’agricoltura, si mobilitano contro un piano verde percepito come sinonimo di ultra-regolamentazione e accusato di affossare la capacità di competere ad armi pari con le economie del resto del pianeta.

Agricoltori, blitz con mille trattori a Bruxelles Assedio e fiamme, la Ue apre a nuove regole

PROSPETTIVE

 Insomma, ora che mancano ormai meno di 100 giorni all’apertura delle urne Ue da cui passa il rinnovo dell’intera Eurocamera e dei vertici delle istituzioni di Bruxelles, il clima politico (e non è un gioco di parole) è peggiorato. Un indizio? Complice il crollo in Germania, dove sono al governo, il gruppo parlamentare Ue dei verdi – che a cicli alterni ha votato per i provvedimenti della “maggioranza Ursula” –, potrebbe perdere circa un terzo dei seggi, cedendo il passo alle due euro-famiglie di conservatori e sovranisti; e gli stessi popolari del Ppe, il partito di von der Leyen, da un anno hanno cominciato a prendere le distanze da alcune misure per la transizione ecologica, nella sfida interna alle destre, spesso addossando la responsabilità di un piano fin troppo teorico per funzionare all’ideologo del Green Deal, cioè l’ex numero due della Commissione Frans Timmermans, nel frattempo tornato alla politica nazionale olandese. Le conseguenze immediate per la strategia verde Ue? Negli ultimi mesi si è vista superare in curva da quelle che saranno le due principali preoccupazioni del prossimo quinquennio: custodire un vantaggio competitivo per le aziende europee di fronte alle tendenze protezionistiche dei partner e costruire una base industriale per la difesa Ue in un mondo che corre al riarmo. Beninteso, nonostante le difficoltà, lo scorso autunno il “Fit For 55”, il pilastro del Green Deal chiamato a più che dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030, ha tagliato il traguardo, riuscendo a mettere a segno varie riforme che puntano, ad esempio, a decarbonizzare il trasporto leggero e pesante su strada, ma anche quello aereo e marittimo. È andare avanti che, d’ora in poi, rischia tuttavia di essere una strada in decisa salita e densa di ostacoli. Prendiamo le auto. L’Ue ha deciso che dal 2035 solo quelle a emissioni zero potranno essere immatricolate: il che significa una messa al bando, di fatto, dei motori a combustione alimentati a diesel e benzina per far spazio a vetture elettriche i cui prezzi sono, tuttavia, rimasti ancora oggi inaccessibili; e una timida apertura di credito al ruolo degli e-fuel, cioè i carburanti sintetici voluti da Berlino (ma non i bio-fuel richiesti da Roma). Nel 2026, però, ha voluto mettere in chiaro von der Leyen lanciando la sua candidatura per un bis a Bruxelles, «ci sarà un’ampia revisione della normativa» da un punto di vista delle tecnologie autorizzate, per far sì che ci siano «opportunità per consumatori e produttori». Tra due anni, insomma, il prossimo esecutivo Ue potrebbe trovarsi a rimettere in discussione una delle strette più conosciute del suo Green Deal. Che, nel frattempo, è finito pure schiacciato sotto le ruote dei trattori in protesta. Il commissario Ue all’Agricoltura Janusz Wojciechowski lo ha sintetizzato senza grandi cerimonie, parlando del malcontento dei coltivatori: «Ci chiedono “Green Deal Out!”»; che il piano verde venga mandato in soffitta. E infatti sul banco degli imputati sono finiti i cosiddetti Gaec, gli standard ambientali che rappresentano condizioni da soddisfare per accedere ai generosi finanziamenti Ue. «Si sono rivelati difficili da implementare», ha fatto autocritica la Commissione, correndo ai ripari e decidendo, ad esempio, di sospendere temporaneamente l’obbligo di tenere il 4% della superficie coltivata a riposo, e proponendo di fare lo stesso con le norme sulla rotazione delle colture e sulla conversione in prati delle superfici erbose degli ex allevamenti. Deroghe che suonano come pannicelli caldi al fronte del malcontento. E allora è stata la stessa von der Leyen a calare l’asso nella manica, proponendo il ritiro formale della proposta di regolamento sui pesticidi chimici (nome in codice Sur), provvedimento a lungo osteggiato dal comparto primario e che, nelle intenzioni dell’esecutivo Ue, avrebbe dovuto dimezzare l’uso dei fitofarmaci entro la fine del decennio, rispetto ai valori 2015-2017, mettendolo completamente al bando nelle zone sensibili vicino a parchi, giardini pubblici e aree verdi urbane. Battuta d’arresto simile è arrivata a fine febbraio su un altro dossier, quello della “due diligence” aziendale, in maniera piuttosto inattesa visto che un accordo tra governi ed Europarlamento era stato raggiunto a dicembre: la direttiva – bloccata dal Consiglio, dove 14 Paesi tra cui Italia, Francia e Germania hanno fatto mancare la maggioranza – avrebbe imposto alle imprese, pena dure sanzioni, di assicurare il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani lungo le rispettive filiere, anche extra-Ue, con misure precise per prevenire l’inquinamento e la deforestazione.

LE DECISIONI

Altre strette del Green Deal, pur se approvate, sono invece state negli scorsi mesi decisamente ammorbidite per avvicinarle alla dose di realismo invocata dai settori coinvolti. È il caso, ad esempio, di quella che in Italia è stata ribattezzata come la direttiva sulle “case green”: al termine di un lungo negoziato, i governi hanno strappato maggiore flessibilità nella definizione dei target di rinnovo del parco immobiliare – che non saranno definiti, come proposto inizialmente, casa per casa, ma sull’intero stock edilizio nazionale – e pure un rinvio al 2040 dello stop alle caldaie a gas. Allentamento analogo anche per la direttiva sulla riduzione delle emissioni degli impianti industriali, da cui sono stati per ora esclusi gli allevamenti intensivi di bovini, e per il regolamento sul ripristino degli habitat naturali degradati (dalle foreste ai laghi), il cui perimetro di applicazione e i cui obiettivi sono stati “diluiti” da una serie di emendamenti degli europarlamentari.

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