Borse roventi: dopo acciaio e big tech lo scontro Cina-Usa si allarga alla finanza

EPA/JUSTIN LANE
di Flavio Pompetti
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 8 Settembre 2021, 13:02 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 12:03

Il mese più buio è stato luglio. In quattro settimane, nel mezzo dell’estate, l’indice Golden Dragon China del Nasdaq, che raggruppa i titoli tecnologici cinesi nel listino di Wall Street, ha perso più del 20% di valore, e persino il CSI 300, un indice della Borsa di New York che replica l’andamento delle blue chip cinesi alla Borsa di Shanghai, ha ceduto l’8%. Quest’ultimo dato era in aperta controtendenza a quanto accadeva sulla piazza della città asiatica che per tutto il mese era rimasta in attivo, per poi scivolare in basso di quasi sei punti nel corso dell’ultima settimana. A causare un tale dissesto non è stato l’arrivo di dati negativi sull’andamento delle singole aziende, o dell’economia nazionale nel suo complesso. Ciò che è successo in quei giorni è che il governo cinese ha manifestato una «seria preoccupazione» per la quantità di dati che le aziende del settore informatico, sia cinesi che straniere, raccolgono dai loro clienti senza condividerli con i servizi di sicurezza statali. L’avviso era chiaro: era in arrivo la stretta che abbiamo poi visto concretizzarsi nei confronti dei videogame e della libertà di azione dei social made in Usa. Allo stesso tempo a New York l’agenzia di controllo della Borsa e gli investitori stavano scatenando un attacco senza precedenti alle aziende cinesi quotate a Wall Street. La vendita a valanga dei titoli era a reazione della Borsa allo stato di incertezza per le conseguenze di quei provvedimenti. Sono mesi che gli scambi borsistici sui due lati del Pacifico rispondono più agli umori dei rapporti politici tra i due Paesi - che proprio sui settori tech fondano le loro strategie di dominio mondiale - che alle dinamiche industriali, più di quanto avveniva durante il mandato di Donald Trump.

L’ANDAMENTO

Le frizioni della guerra commerciale non hanno impedito alla Borsa di Shanghai di proseguire un’ascesa che procede da ventisei anni, data della sua creazione. Nel quadriennio tra il gennaio 2017 e il 2021, nel quale Trump è stato al timone degli Stati Uniti, mentre dazi e proibizioni sempre più pesanti colpivano l’acciaio, l’alluminio e poi la tecnologia cinese, l’indice della Borsa di Shanghai è salito del 12,8%, in linea con un Pil e un’economia in crescita record. Dall’arrivo di Biden invece i grafici sono rimasti piatti, anche se nel frattempo la locomotiva industriale cinese è stata tra le prime a ripartire e a macinare profitti all’uscita della fase acuta dell’epidemia del Covid. Il motivo è che le tensioni commerciali che avevano caratterizzato i rapporti con gli Usa di Trump si sono ora spostate con Biden direttamente sul piano finanziario. Il braccio di ferro tra i due Paesi è diventato una guerra tra le rispettive Borse, con i governi e le due agenzie di controllo degli scambi, entrambi determinati a riscrivere le regole che governano il libero flusso di capitali sulle due sponde del mare.

IL CASO

Lo scorso gennaio il dipartimento del Commercio di Washington ha aggiunto, a dispetto delle vibrate proteste della diplomazia di Pechino, ben 59 aziende cinesi alla lista nera delle società bandite dagli scambi perché ritenute pericolose per la sicurezza nazionale.

All’inizio di luglio la Sec, il cane da guardia di Wall Street, ha iniziato a tuonare contro le società cinesi quotate negli Usa. Nell’ultimo decennio circa 200 società cinesi si sono iscritte ai listini della Borsa di New York usando la formula del “reverse merger” (fusione rovesciata), nella quale un’azienda non quotata ne acquista una già presente nel listino ma dalle sorti finanziarie compromesse. Il risultato è la creazione di una terza entità già ammessa in Borsa, ma che non ha dovuto sottoporsi al regolare scrutinio necessario per arrivarci. La Security Exchange Commission ha denunciato che in molti casi dietro queste operazioni si nascondono contabilità imperscrutabili, che tra l’altro sfuggono ai controlli fiscali degli Usa in quanto soggette alla legislazione cinese. Al punto che ne ha minacciato il delisting, la cancellazione. Ma prim’ancora che potesse passare ai fatti, un’ondata di cause civili si è abbattuta su molte delle società cinesi quotate a Wall Street: gli specialisti delle vendite allo scoperto avevano fiutato il sangue e hanno guidato un attacco che ha snellito la presenza dei titoli cinesi a Wall Street.

BOTTA E RISPOSTA

Il 30 luglio la Sec ha calato l’ultimo fendente: niente più raccolta di capitale negli Stati Uniti senza piena chiarezza fiscale, e senza la garanzia che dietro un’azienda ci sia la lunga mano del governo cinese. Nemmeno a dirlo, il governo di Pechino ha risposto colpo su colpo. Ad aprile si è dotato di una nuova legge sull’antiterrorismo che richiede tra l’altro la completa visibilità di segreti aziendali e dati sensibili di un’azienda che vuole operare sul suo territorio. A luglio ha poi annunciato un piano quinquennale di controlli ancora più stringenti sull’attività industriale che riguarderà in modo particolare le aziende straniere che hanno aperto fabbriche sul suo territorio, unite a misure coercitive che interesseranno anche le due piazze finanziarie di Shanghai e di Schenzhen. A sorpresa la scorsa settimana è infine giunta la notizia, per bocca dello stesso Xi Jinping, della prossima apertura di un terzo mercato borsistico a Pechino, dedicato principalmente a titoli tecnologici di aziende di piccola e media dimensione. La decisione è in linea con la sterzata che il presidente sta imprimendo all’economia nazionale, per ricondurre la potente locomotiva del capitalismo sguinzagliata venticinque anni fa sotto un controllo più rigido da parte del partito. La localizzazione della terza Borsa a Pechino potrebbe rispondere a questo obiettivo primario di riportare le redini della finanza nella capitale politica, e facilitare un maggiore controllo da parte della seconda sulla prima. Al tempo stesso però è un ultimo segnale di una potenza che con una mano continua a negoziare la pace commerciale e finanziaria con gli Stati Uniti, ma con l’altra prepara il terreno per un eventuale sganciamento radicale delle due economie.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA