Home Blog Pagina 116

Stephan Boujnah: «Adesso Euronext può fare da ponte al Mercato Unico»

Stephan Boujnah: «Adesso Euronext può fare da ponte al Mercato Unico»
Stephan Boujnah: «Adesso Euronext può fare da ponte al Mercato Unico»

Stephan Boujnah, 56 anni, ceo di Euronext dal 2015, ci parla dal suo ufficio tutto vetri a La Défense, nel cuore di Parigi. Conosce bene l’Italia, fin da quando da ragazzo visitava Pompei ed Ercolano sognando di fare l’archeologo. Il latino lo ha imparato allora. Poi la vita gli ha aperto altre strade. Ma ancora oggi si emoziona quando parla del Museo Archeologico di Napoli. Vuole tornare in Italia.

E le occasioni non gli mancheranno ora che ha acquistato Borsa Italiana dal gruppo Lse per 4,3 miliardi.

Boujnah, che cosa cambia per Euronext l’ingresso in Borsa Italiana?

«Cambia molte cose. Detta in breve, saremo leader fra i mercati dei capitali in Europa continentale. E Borsa Italiana, quale maggior contributore in termini di ricavi, avrà un grande merito, visto che almeno un terzo del fatturato verrà da lì».

Come pensa di garantire gli interessi del nostro Paese?

«L’Italia avrà un ruolo di primo piano ad ogni livello della governance, della gestione, della supervisione e dell’operatività. Cdp e Intesa Sanpaolo saranno azionisti di riferimento di lungo termine, impensabile che non abbiano una rappresentanza adeguata. Insieme a loro sarà più facile accelerare la creazione dell’Unione dei Mercati dei capitali in Europa».

Abbiamo capito che Borsa Italiana è strategica per Euronext. Ma ci spiega anche come Euronext sarà strategica per Borsa Italiana?

«Il nostro motto è “uniti nella diversità”: all’interno di Euronext ogni infrastruttura di mercato nazionale mantiene la propria identità e sviluppa appieno il proprio potenziale. Per il London stock exchange, Milano era diventata periferica: per Euronext lo sviluppo delle attività di Borsa Italiana sarà la massima priorità».

Lei dice che Milano era diventata marginale per Londra, ma nel board di Lse sedevano due italiani. Le richiedo: quanto peserà l’Italia nella governance di Euronext?

«Il nostro è un modello di governance federativa. Lo abbiamo definito 25 anni fa per integrare i mercati di Francia, Belgio, Portogallo, e poi lo abbiamo esteso ad Irlanda e Norvegia. Funziona, ed è pronto ad accogliere dalla porta principale anche l’Italia».

Sia più esplicito, quanti posti nel board ?

«Cdp, azionista principale, al pari della sorella francese Cdc avrà un posto nel supervisory board. Inoltre l’Italia avrà un membro indipendente del consiglio della business community. Questo consigliere verrà anche indicato come presidente di Euronext. Nel management board siederà il ceo di Borsa Italiana, insieme ai capi degli altri mercati. Infine, l’ad di Mts, che consideriamo una vera eccellenza, farà parte del management board esteso, che comprende i leader delle funzioni centrali».

Che cosa si devono aspettare le imprese italiane quotate e da quotare?

«La mission di Euronext è dare energia ai mercati europei dei capitali per finanziare l’economia reale. Euronext è il motore della crescita delle large cap e delle pmi, e questo è esattamente lo stesso obiettivo di Borsa Italiana. Questo completo allineamento offrirà una grande opportunità ai clienti attuali e futuri di Borsa Italiana: avranno accesso a un singolo pool di liquidità, attraverso un portafoglio ordini unico alimentato da un’unica piattaforma di trading».

Questo è un preambolo, entriamo nei dettagli.

«Tutte le società italiane quotate faranno parte di un listino molto più ampio, con una capitalizzazione di mercato aggregata pari a 4.400 miliardi, e del più grande pool di liquidità in Europa, con volumi giornalieri pari a 12 miliardi e il 25% del trading azionario in Europa. Ciò offrirà un enorme vantaggio alle blue chip e alle banche internazionali, ma soprattutto sarà un punto di svolta per le pmi italiane, per i broker e per gli asset manager locali».

Il titolo Euronext è sceso dopo l’annuncio su Borsa Italiana. Gli investitori temono abbiate pagato troppo. Per rifarvi, basteranno i 45 milioni all’anno di sinergie sui costi oppure avrete bisogno di spremere e tagliare di più? C’è chi teme che il business possa essere spostato da Milano a Parigi…

«Faremo esattamente il contrario. A partire dal cfo Giorgio Modica, che si sposterà a Milano. Per noi è un forte segnale di funzioni centrali che si spostano sull’Italia. Per quanto riguarda il prezzo, c’era un’altra offerta, è dunque l’esito di un’asta e quindi è un prezzo pieno. Il mercato critica, ma sottovaluta i numeri veri di Borsa Italiana, che sono migliori di quelli percepiti. Inoltre paghiamo il valore strategico di un’opportunità unica per Euronext».

Ma perché l’opportunità divenga anche redditizia, serviranno sinergie, quindi tagli. Non è quello che si fa quando una realtà aziendale si sposa con un’altra?

«Nessun taglio al business italiano, le sinergie saranno distribuite sull’intero gruppo. Ci sono alcune funzioni che Borsa Italiana svolge in maniera più efficiente rispetto ad altre nostre società. Viceversa, ci potranno essere funzioni più efficienti altrove. Sinergie da entrambi i lati».

Perché ritiene che l’Unione dei Mercati dei capitali sia tanto rilevante per il futuro dell’Europa?

«Perché permetterà all’economia dell’area di crescere in modo sostenibile e di diventare più competitiva e resiliente. La necessità di realizzare il mercato unico è diventata ancora più urgente nell’attuale contesto. Le imprese devono poter accedere ai capitali e gli investitori devono poter investire in progetti paneuropei, per uscire da questa crisi e per accelerare la transizione digitale e green. A mio avviso, nel mondo post-Brexit, l’Europa dovrebbe essere, e può essere, un continente di generatori di risorse finanziarie, con grandi e potenti banche europee, asset manager e infrastrutture di mercato europei, elementi necessari per far sì che l’Europa mantenga la sua sovranità».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Recovery Fund, è guerra tra partiti su chi deciderà. Ma l’ultima parola spetta alla Ragioneria

Recovery Fund, è guerra tra partiti su chi deciderà. Ma l'ultima parola spetta alla Ragioneria
Recovery Fund, è guerra tra partiti su chi deciderà. Ma l'ultima parola spetta alla Ragioneria

Una cabina di regia politica a Palazzo Chigi, ma affiancata da una squadra tecnica di manager, con il comitato interministeriale per gli Affari europei a garantire i collegamenti con Bruxelles. E la Ragioneria generale dello Stato in prima linea nel monitoraggio dei fondi. Mentre a Bruxelles la nebbia sugli effettivi tempi di attuazione del Recovery Fund non si è ancora diradata, nel nostro Paese è già infuocata la discussione sulla governance della gigantesca operazione, che rappresenta un’occasione storica ma allo stesso tempo porta con sé un rilevante rischio di fallimento, non solo per noi ma per l’ambizione dell’Europa di uscire diversa e migliore dalla tragedia del Covid.

Disastrosa frattura

L’Italia è infatti il principale beneficiario del Next Generation Eu, non solo in termini assoluti ma anche politici, visto che sarebbe l’unico contributore netto al bilancio dell’Unione ad avere alla fine un saldo positivo. In buona sostanza, il piano è stato concepito e faticosamente messo a punto per evitare che alcuni Paesi dell’Unione – a causa della propria debolezza strutturale e dell’alto debito – si ritrovassero non più in grado di fronteggiare le conseguenze della crisi senza precedenti indotta dalla pandemia, provocando così una disastrosa frattura nell’Unione stessa. L’Italia è il più grande e importante tra gli Stati che sono in questa posizione e dunque non è azzardato affermare che dal nostro successo, dalla capacità di trasformare il flusso di risorse in capacità di crescita duratura, dipenderà la riuscita dell’intero esperimento.

Il meccanismo

Purtroppo da questo punto di vista l’esperienza del passato appare quanto meno in chiaroscuro, se non del tutto negativa. Qualche miglioramento c’è stato, ma come segnala la Corte dei Conti il tasso di assorbimento dei fondi strutturali europei resta da noi a livelli molto bassi: a fine 2019 era stato speso solo il 30% delle risorse disponibili per il ciclo 2014-2020, contro una media europea intorno al 40%. È vero che c’è tempo fino a tre anni dopo il termine del periodo, ma si tratta comunque di un ritmo lento. Invece con il Ngeu l’imperativo è spendere presto e bene. Per farlo, in attesa della presentazione del vero e proprio Recovery Plan – che è strettamente vincolato nella sua forma alle griglie rigide individuate nelle linee guida di Bruxelles – è necessario progettare con attenzione i meccanismi di erogazione e verifica, per evitare che si inceppino nei passaggi tra ministeri e Regioni o nelle estenuanti mediazioni politiche. E qui entra il tema della governance, che sarà definita in dettaglio nei prossimi giorni, ma appare al momento quanto meno frastagliata e condizionata anche dall’esigenza dei vari partiti di presidiare l’operazione. Si parla di una cabina di regia politica a cui parteciperebbero il presidente del Consiglio Conte, il ministro dell’Economia Gualtieri e quello delle Sviluppo economico Patuanelli. Ma questo trio di vertice sarebbe affiancato da un comitato ristretto, definito da Conte «struttura operativa ad hoc con un profilo manageriale»: sei tecnici chiamati a vigilare anche con poteri sostitutivi (e una task force di ben 300 persone) sulle sei missioni in cui si articola il piano. Il nuovo assetto non farebbe uscire di scena il Ciae, il Comitato interministeriali per gli Affari europei, presieduto sempre da Conte ma coordinato dal ministro per gli Affari europei Vincenzo Amendola. È l’organismo che sta gestendo concretamente la complessa stesura del Piano nazionale di ripresa e resilienza, in raccordo con la Commissione Ue. Le linee in cui si articola il piano in base alle indicazioni di Bruxelles sono talmente dettagliate e stringenti da rendere necessaria una continuità tra fase progettuale e operativa. Amendola dunque sarà ancora l’interfaccia con l’esecutivo comunitario. Nella cosiddetta “legge europea” che è ancora all’esame del Parlamento, è previsto tra l’altro il rafforzamento del personale a disposizione del Ciae, che passerebbe da 20 a 28 unità.

La struttura

Il premier ha poi evocato anche un “comitato di garanzia” formato da dieci saggi. Intanto però altri pezzi dell’amministrazione pubblica si sono messi al lavoro, producendo norme che sono già nero su bianco. È il caso della Ragioneria dello Stato: proprio con la legge di Bilancio, oltre a definire le regole del Fondo di rotazione su cui transiteranno le risorse Ue e i criteri per la rendicontazione, si è dotata di una propria “unità di missione” incaricata di coordinare tutti gli uffici della Ragioneria che a vario titolo si occuperanno del Next Generation Eu. Sulla carta è un’attività tecnica, separata dalla governance del piano nazionale. Ma i paletti posti nel testo sono piuttosto significativi e forse tali da lasciare al dipartimento del Mef l’ultima parola sulla gestione concreta dei fondi. Si fa riferimento a un sistema di rilevazione che tenga conto di costi programmati, obiettivi perseguiti, ricadute sui territori, tempi di realizzazione e indicatori di risultato; viene specificato anche che il mancato rispetto dei target comporterà la revoca dei finanziamenti. Un sistema informatico sviluppato dalla Rgs validerà i dati e assegnerà i trasferimenti. L’unità di missione sarà guidata da un dirigente generale del ministero dell’Economia: nella stessa legge è autorizzata l’assunzione al Mef con procedura rapida di venti funzionari, che dovranno occuparsi di questi specifici compiti.

Le carte del governo

Insomma, il quadro si presenta al momento già piuttosto articolato, in attesa che il governo scopra definitivamente le proprie carte. Ma la complessità potrebbe risultare alla fine ancora maggiore. Perché ad esempio c’è da seguire il rapporto con il Parlamento, che chiede di essere coinvolto in modo non generico: è stata proposta anche la costituzione di un’apposita Commissione bicamerale in cui siano rappresentate maggioranza e opposizione. Senza contare che una quota rilevante di prestiti e sovvenzioni – che vengono erogati in stretto coordinamento con il bilancio europeo – dovrà essere canalizzata verso il Sud: e ciò suppone un qualche ruolo delle strutture governative che si occupano di coesione a partire dal ministero del Mezzogiorno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Caccia ai capitali e rinvio delle perdite per salvare le Pmi

Caccia ai capitali e rinvio delle perdite per salvare le Pmi
Caccia ai capitali e rinvio delle perdite per salvare le Pmi

Il governatore di BankitaliaIgnazio Visco, lo ha detto chiaramente: «Potrebbero essere necessarie misure a sostegno della ricapitalizzazione delle imprese per evitare un problema generalizzato di eccesso di indebitamento». E se lo dice il governatore, è il caso di credergli. Come al solito, però, giocare d’anticipo fa la differenza. Vale anche per la catena di fallimenti che la crisi-Covid potrebbe far scoppiare l’anno prossimo se non si troverà subito una macchina anti-crac. Tra moratorie, prestiti garantiti, blocco delle dichiarazioni di fallimento, espansione della Cig, stop ai licenziamenti, e posticipo degli adempimenti fiscali, finora le misure del governo hanno evitato il peggio per centinaia di migliaia di imprese. Ma il rischio di produrre un esercito di aziende zombie è dietro l’angolo. Se prima di allentare le misure d’aiuto non si troverà il capitale necessario per ripartire, nel 2022 il conto busserà alle banche.

Due sole leve

E allora ci sono due leve sulle quali agire: evitare che il buco da Covid finisca di colpo nel bilancio erodendo il patrimonio e ripatrimonializzare l’impresa anche con incentivi pubblici che spingano nuovi soci a sostenere il progetto di rilancio. Sul primo fronte, diversi interventi sono già in campo e altri sono allo studio. Il quarto Decreto Ristori prevede lo stop delle tasse alle aziende con meno di 50 milioni di ricavi o compensi: se le perdite del primo semestre supereranno il 33% si potrà rinviare il pagamento fino al 30 aprile 2021. Stessa scadenza per lo stop ai licenziamenti, mentre la moratoria per i prestiti è già slittata al 30 giugno grazie alla legge di Bilancio. Fino ad allora si potrà ancora avanzare domanda per i prestiti garantiti dallo Stato. Già quest’estate, poi, il Decreto Rilancio ha permesso la deroga al principio della «continuità aziendale» nella redazione dei bilanci 2020. Il cuore della strategia di rilancio si gioca sulla seconda leva: gli aumenti di capitale, da affiancare alla crescita dei mini-bond. Secondo Unioncamere e Innolva (Gruppo Tinexta), le imprese con patrimonio netto negativo sono oltre il 9% del totale dei bilanci finora depositati (64.000 aziende su 717.000 bilanci analizzati, per un totale di circa 900.000 aziende), senza considerare i 4 milioni di micro-imprese che non depositano i bilanci. Non solo. Dall’analisi in questione emerge come sulla base dei dati disponibili a dicembre 2019, a fronte di un 17% di imprese in situazione “critica”, circa l’80% del campione presenta una certa solidità strutturale ed è in grado di superare, seppur con un possibile peggioramento della valutazione, la fase difficile.

Dati allarmanti

Nello stesso tempo, non si possono sottovalutare dati allarmanti come quelli che arrivano dal commercio. Il tasso nati/mortalità di imprese è pari allo 0,9: nascono meno imprese di quante ne chiudono. Mentre il numero di procedure concorsuali aperte è in linea con quello degli anni scorsi: un segnale da non sottovalutare, tenuto conto del minore tempo a disposizione per depositare procedure e di tutte le moratorie in corso. Ecco perché «soprattutto in vista dell’avvio a settembre delle nuove procedure previste dal Codice della crisi d’impresa», sottolinea Sandro Pettinato, vice segretario generale di Unioncamere, «serve affiancare alla tradizionale valutazione di tipo economico finanziario, una valutazione che si basi su segnali “deboli” anticipatori di una potenziale crisi». Altrimenti «si finisce per arrivare tardi e perdere un pezzo importante di rischiosità dell’impresa», dice Pettinato. Ancora più urgente è la tempestiva modifica del nuovo Codice della crisi, che fa scattare da settembre stringenti segnalazioni di insolvenza a carico delle imprese.

Decollo difficile

Intanto, il Fondo Patrimonio Pmi da 4 miliardi di Invitalia per la patrimonializzazione delle imprese tra i 10 e i 50 milioni di fatturato stenta a decollare: non sono molte le aziende disposte a puntare risorse fresche in una fase di incertezza. Anche il Fondo di Cdp per sostenere gli aumenti di capitale delle grandi imprese, è ancora ai blocchi di partenza. Mentre il sostegno della Simest in questa direzione, presuppone la spinta all’estero. Un buon inizio, ma non basta. Per ricostruire, anche attraverso strumenti ibridi, centinaia di migliaia di patrimoni bruciati dal Covid, serviranno nuove strade.

I prestiti di Stato scoppiano: un’impresa su 5 è a rischio. Serve un paracadute anti-crac

I prestiti di Stato scoppiano: un'impresa su 5 è a rischio. Serve un paracadute anti-crac
I prestiti di Stato scoppiano: un'impresa su 5 è a rischio. Serve un paracadute anti-crac

Il contatore corre veloce. Ogni giorno segna un nuovo record. All’ultima rilevazione, le lancette si sono fermate su 1,4 milioni di domande. Le imprese italiane, quelle piccole e medie, si sono attaccate al polmone del credito garantito dallo Stato. Tramite il sistema bancario hanno chiesto prestiti, che in caso di inadempienza rimborserà la mano pubblica, per quasi 110 miliardi di euro. Nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, la Banca d’Italia ha avvisato che oltre due terzi dei nuovi prestiti erogati alle piccole e medie imprese, ormai è concesso con questo meccanismo, cioè solo se lo Stato interviene a garantire il rimborso. La misura, insieme alla moratoria sui finanziamenti e sui mutui (le rate congelate ormai superano 300 miliardi di euro), al blocco dei fallimenti, e al rinvio di diverse scadenze fiscali, ha consentito alle imprese di reggere l’impatto dell’onda d’urto della pandemia e del crollo dei fatturati, trasferendo però una parte consistente dei rischi sulle casse dello Stato.

Il dilemma

E questo, data l’entità delle cifre in gioco, ha creato una sorta di dilemma: come fare ad uscire dalle misure di sostegno alle imprese evitando che le imprese falliscano e i costi si scarichino sui conti pubblici, oltre che a catena sulle banche? La Bce lo ha definito il rischio «cliff effect». Nel suo Rapporto sulla stabilità finanziaria ha messo in guardia i Paesi dell’area euro dal ritirare troppo presto gli aiuti economici messi in campo per rispondere alla crisi Covid. Il pericolo è quello di incorrere nel baratro fiscale (cliff effect), uno shock economico derivante da un calo improvviso e amplificato delle misure di sostegno pubblico. Un ritiro prematuro degli aiuti di bilancio, come le garanzie sui prestiti, le moratorie, rinvii tributari e sovvenzioni, «potrebbe bloccare la ripresa, trasformando i problemi di liquidità delle aziende osservati agli inizi della pandemia in problemi di solvibilità». Che, come detto, avrebbero ripercussioni anche sui conti dello Stato, avendo garantito il rimborso dei fidi non solo tramite il Fondo centrale di garanzia per le Pmi, ma anche attraverso la Sace e il suo programma “Garanzia Italia”. Il problema è ben presente al Tesoro. Che da qualche tempo sta provando a puntellare i vari strumenti messi in campo. Nella manovra di Bilancio ha rifinanziato con 4,5 miliardi il Fondo di garanzia per le Pmi, quello sul quale, come detto, pesano 1,4 milioni di domande per un controvalore di 110 miliardi di euro, con quasi un milione di richieste per prestiti fino a 30 mila euro erogati sostanzialmente “a vista”. Una mole di finanziamenti concessi a debitori di cui il Fondo sa poco o nulla, tanto che da un mese ha iniziato a chiedere alle banche che li hanno concessi i documenti giustificativi. Non solo. Il governo ha deciso di far “migrare” le garanzie prestate dal Fondo alle medie imprese (quelle tra 250 e 500 dipendenti) verso la Sace per, scrive testualmente il Tesoro nella relazione tecnica della manovra, «alleggerire la notevole pressione sulla sostenibilità dell’operatività del fondo».

Il ruolo della Sace

Ma non è solo la capacità di gestire le pratiche (passate da 80 mila a 1,4 milioni l’anno). Il vero fulcro della questione è che il Fondo «ha visto proporzionalmente aumentare l’entità e la rischiosità delle proprie esposizioni». Meglio, insomma, trasferire le posizioni verso la Sace. Anche per una questione “contabile”. Se a prestare la garanzia è il Fondo per le Pmi, il Tesoro in base alle regole europee è obbligato a stanziare fondi in bilancio per coprire il rischio che l’impresa fallisca e tocchi allo Stato ripagare il prestito alla banca. Se la garanzia la presta Sace, invece, siccome viene considerata «non standardizzata», il Tesoro non è costretto a fare deficit per coprire le possibili perdite, ma inserire la partita solo nel cosiddetto «saldo netto da finanziare». Detto in estrema sintesi, non c’è bisogno di accantonare prima somme per l’eventuale fallimento, le somme entreranno nei conti pubblici solo se e quando il fallimento dell’impresa ci sarà. Ed è la ragione per la quale il governo ha “pubblicizzato” fino a 200 miliardi di garanzie da parte Sace, quando in realtà quelle effettivamente erogate sono meno di 20 miliardi. Ma un’ondata di fallimenti dovuta a un’uscita affrettata dagli strumenti anti-crisi rischierebbe comunque di presentare il conto, nonostante l’alchimia contabile.

I default congelati

Si tratta dunque di guadagnare altro tempo. Ma nel frattempo va trovata la strada per salvare decine di migliaia di aziende già oggi tecnicamente pronte a chiudere, preparando il disgelo dalle misure di emergenza. Perché il rischio è anche quello di presentare il conto salato di nuovi Npl alle banche. Senza la modifica Ue del nuovo “calendario di deterioramento” dei crediti (calendar provisioning) in vigore da gennaio si rischia la «bomba atomica» denunciata dall’ad di Mediobanca, Alberto Nagel. Una norma meccanica che impone accantonamenti più rapidi sui crediti deteriorati, elimina la discrezionalità, e porta a svalutare gli Npl di un terzo ogni anno, comprese le inadempienze probabili (gli Utp), può davvero portare disastri nei bilanci delle banche e chiudere i rubinetti del credito necessario alla ripresa. Se «tratti in automatico un credito vivo come un credito morto», invece di separare le categorie come dice Nagel, non può essere altrimenti. Non solo. Un’altra regola prodotta dall’Ue in tempi pre-Covid e in arrivo tra un mese è la nuova definizione di default. «Cade in default chi ha un debito arretrato di 90 giorni, anche per soli 100 euro. Se si tratta di aziende il limite sale a 500 euro, in ogni caso bassissimo» per il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli: «Un meccanismo micidiale soprattutto in epoca di pandemia perché chi accusa quel ritardo finisce per essere inserito nella lista dei cattivi pagatori, con tutto quello che ne segue. È evidente che tutto ciò rischia di strangolare l’economia». Il grido d’allarme è pesante. E insieme all’ultima fotografia sullo stato delle imprese, fa ancora più paura. Anche utilizzando le misure governative, dice Bankitalia, a fine anno rimarrebbero fuori circa 32.000 imprese (che non accedono ai prestiti bancari garantiti) con un fabbisogno di 17 miliardi. Nello stesso tempo, la quota di società di capitali in deficit patrimoniale raggiungerebbe il 12%, quasi il doppio dei livelli prima della crisi (6,9%). E ancora: ad oggi la probabilità di default è salita al 3-4,4% (era il 5,4% nella crisi del 2015), ma per ristoranti e alloggi sfiora il 6%. Risultato: il 16,4% delle imprese sono oggi «molto rischiose» e hanno in pancia il 23% dei debiti. Senza contare i 4 milioni di aziende che non depositano i bilanci. Inevitabile l’effetto domino sulle banche. Fino a che punto esploderanno gli Npl, si vedrà. C’è chi scommette che almeno un terzo dei 300 miliardi di prestiti congelati possano trasformarsi in “crediti malati”. Saranno 1.400 miliardi in Europa, dice Bce. Ci vuole una colossale bad bank.

Il calendario

Mentre il governo rincorre tutte le moratorie possibili, tra prestiti, scadenze fiscali e stop ai licenziamenti, estendendo aiuti a fondo perduto alle imprese, prestiti garantiti e cig, previa rigorosa approvazione dell’Ue – guai a chi va fuori dalle regole sugli aiuti di stato- la stessa Bruxelles rischia di far inceppare la macchina anti-recessione già il primo gennaio 2021. È proprio allora che entrerà in vigore la nuova definizione di default per le banche con l’automatica classificazione ad NPE (Non performing exposure) per crediti scaduti superiori a 90 giorni anche se l’importo supera i 100 euro per i privati . Il “calendar provision”, il nuovo calendario per i crediti deteriorati, chiede invece alle banche di azzerare i deteriorati in 3 anni per i non garantiti e i 7-9 anni per i garantiti. Tra incagli e sofferenze non c’è differenza. Un boomerang in tempi di Covid. A settembre entra in vigore poi il nuovo codice della Crisi, un altro rischio. E intanto sono prorogate a giugno le moratorie sui prestiti e le garanzie pubbliche. Mentre lo stop ai licenziamenti è scade ad aprile.

Banche, Opa Agricole-Creval, il risiko accelera: a Sondrio già scalpita un cavaliere bianco

Banche, Opa Agricole-Creval, il risiko accelera: a Sondrio già scalpita un cavaliere bianco
Banche, Opa Agricole-Creval, il risiko accelera: a Sondrio già scalpita un cavaliere bianco

C’è chi ricorda la coincidenza temporale con l’inverno 1994, quando il Credito Italiano guidato da Lucio Rondelli, supportato dalla Mediobanca di Enrico Cuccia, lanciò l’Opa sul Credito Romagnolo. La Cariplo, allora pilastro della finanza cattolica, ingaggiò un duro braccio di ferro culminato in una contro-Opa, risoltasi a tavolino a favore del Credito Italiano con una decisione Consob che ha fatto discutere. Al netto dei cambiamenti profondi nel frattempo intervenuti e degli effetti del Covid, il blitz del Credit Agricole con l’Opa sul CreVal di lunedì 23 novembre, secondo alcune banche d’affari potrebbe riproporre uno scenario simile a quello di 26 anni fa. Da segnalare che poco dopo quel blitz, sempre con la regia di Mediobanca, la Comit tentò di conquistare Ambroveneto guidato dal cattolico Giovanni Bazoli: il tentativo fallì, ma fu chiaro a tutti che le due finanze, quella laica e quella cattolica, che fino ad allora avevano convissuto, erano entrate in rotta di collisione marcando un periodo di alti e bassi che sarebbe durato un decennio.

Advisor in campo

Quel conflitto è ormai storia, e non ha più senso riproporlo oggi. E tuttavia certi segnali registrati a Sondrio fanno ritenere che lo scontro bolognese del ‘94 potrebbe in qualche modo rivivere oggi con motivazioni più segnatamente territoriali. L’Opa «amichevole» lanciata dall’Agricole non ha convinto il management del Creval guidato da Luigi Lovaglio, che la definisce «inaspettata e non concordata» nonostante l’offerta di 10,50 euro per azione incorpori un premio del 21% sulla quotazione di Borsa della seduta precedente il lancio dell’Opa e del 52% sulla media dei sei mesi. Tra gli scenari che a Sondrio si vorrebbero esaminare assieme agli advisor Bofa Securities, Mediobanca e Intermonte Sim, ci sarebbe il ricorso a un cavaliere bianco che potrebbe proporre una fusione “domestica” con la Popolare di Sondrio, sempre che l’Antitrust nulla abbia da eccepire; oppure la chiamata in soccorso di un partner estero: i nomi che girano sono quelli di SocGen, Natixis, Bbva. «Non ci sarà rilancio» ha detto Giampiero Maioli, ceo dell’Agricole Italia di fronte al titolo balzato fino a 11.50 euro. C’è da credergli? Anche Carlo Messina assicurò che non si sarebbe mosso, , salvo dover alzare la posta a tre giorni dal traguardo anche perché, rispetto al momento dell’annuncio, il Covid aveva cambiato i parametri. Che farà l’Agricole? Manterrà la posizione? Oppure Maioli cederà? D’altro canto, crescere si deve: è ormai un imperativo assoluto in tutta Europa, se si vuole sopravvivere. Lo impongono la congiuntura dei tassi negativi e l’avvento del fintech che capovolgerà il tradizionale modello di business. Dunque, obbligati a crescere anche per razionalizzare i costi, riducendo i dipendenti, assumendone di nuovi ma più specializzati, in modo da investire con profitto in tecnologia. Per non dire delle attività core, con l’ampliamento del portafoglio clienti cui vendere polizze, gestioni patrimoniali, piccoli prestiti e guadagnare sulle commissioni. A ciò si aggiunga la moral suasion della Bce, che in caso di fusione ora consente di trasformare il badwill in capitale da utilizzare per coprire le rettifiche di valore anche su crediti. E che dire del Tesoro che consente di utilizzare le Dta (i crediti fiscali) per dedurre fino al 2% degli attivi nei merger dopo l’1 gennaio 2021? E che dire della stimata crescita degli Npl a causa della crisi delle imprese? Sono 100 miliardi di crediti marci in più secondo le stime.

Castagna in manovra

La mossa del Credit Agricole, che punta entro maggio alla fusione tra le attività bancarie italiane e il Creval, avrà come risultato un istituto con una quota di mercato del 5%. E se si considera che la soglia ideale per stare in Europa è individuata nel 20%, ben si comprende quanto sia importante questa acquisizione per la banca francese. Per di più in presenza di un risiko bancario che ha ripreso vigore (si pensi anche alla fusione annunciata in Spagna fra Caixa e Bankia) e dove un po’ tutti sono in manovra, peraltro assai meglio posizionati di Agricole Italia che pure ha fatto otto acquisizioni grazie a Maioli, divenendo il settimo polo italiano. Basti osservare che Unicredit conta su una quota di mercato pari all’11%, il Banco Bpm ha il 7,4%, Bper il 6,5% contabilizzando i 620 sportelli in arrivo da Intesa-Ubi, e Mps il 6,2%. Solo Intesa Sanpaolo, dopo l’acquisizione di Ubi, ha raggiunto la soglia del 20%, che per il momento dovrebbe escluderla da altri merger. Ciò di sicuro non vale per Banco Bpm, che ha aperto le porte a una potenziale combinazione con Bper, dopo un’iniziale freddezza: con Carlo Cimbri e Alessandro Vandelli, ci sarebbero stati colloqui avvenuti dopo l’incipit di partenza del capo di Unipol, primo socio a Modena. Per non dire di Mps, divenuta snodo cruciale perché dopo la nazionalizzazione del 2017 costata 8,8 miliardi (5,9 del Tesoro), nel 2021 andrà riprivatizzata: il Mef guarda a Unicredit ma anche dopo lo strappo con Mustier lunedì 30 novembre, il cda mette paletti per prenderla in esame. Dal risiko ormai in accelerazione non sono esclusi Carige dove Ccb, nel prossimo anno, dovrebbe esercitare l’opzione comprando (magari con un altro sconto) la quota del Fitd; e Mcc, protagonista del salvataggio della Popolare di Bari: l’ad Bernardo Mattarella dovrà infatti dare seguito al mandato del Tesoro di creare un polo nel Sud e già ora avrebbe messo nel mirino un istituto napoletano in affanno: la Banca regionale di sviluppo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Trasporto aereo, è la crisi più lunga: la politica ora dovrebbe farsi da parte

Trasporto aereo, è la crisi più lunga: la politica ora dovrebbe farsi da parte
Trasporto aereo, è la crisi più lunga: la politica ora dovrebbe farsi da parte

Il trasporto aereo italiano sta vivendo il suo momento di crisi più duro di sempre a causa degli effetti indotti dalla pandemia, e quest’anno vedrà il numero di passeggeri ridursi dai 161 milioni del 2019 a meno di 50 milioni.

Un livello che non si registrava dai tempi dell’introduzione della liberalizzazione del mercato europeo: era il 1997 e quell’anno, l’ultimo del periodo “chiuso”, il mercato domestico contò circa 53 milioni di passeggeri. Tra l’altro, mentre all’inizio dell’estate si pensava che la ripresa dei voli-vacanze fosse di buon auspicio per il ripristino dei flussi, il secondo lockdown non solo ha interrotto il processo di recupero, ma ha reso ancor più disastroso il crollo previsto per fine anno, visto che nell’ultimo trimestre il traffico è in pratica pari a zero. Naturalmente il problema non è solo in capo all’Italia, è il trasporto aereo mondiale che sta rischiando grosso, dato che le aspettative delle maggiori compagnie prevedono che solamente nel 2024 si tornerà ai livelli di traffico del 2019. Per tale ragione è interessante interrogarsi su quale possa essere il futuro di ITA, perché se è vero che i 3 miliardi di euro messi sul tavolo dal governo non sono pochi, potrebbero non bastare a trasformare un business, che finora ha deluso, in una attività che, oltre a servire un Paese particolarmente “lungo” come il nostro, diventi anche capace di produrre profitto da destinare alla crescita.

IL COSTO DEI PARTITI

Bisogna dunque evitare gli errori del passato. Uno sopra tutti: il fatto che sia tornata a essere la compagnia di bandiera non autorizza i partiti a interferire come hanno fatto nel passato, anche se ciò non sarà facile visto che nel consiglio di amministrazione di Ita figurano molti esponenti dei partiti di governo. La loro presenza nel cda è il contrario di ciò che dovrebbe essere, perché è giunto il momento che anche nelle partecipate dello Stato le relazioni industriali seguano finalmente il percorso di una normale azienda destinata a produrre bilanci in attivo. Una replica di quanto accadde alla fine di aprile 2017, quando il voto dei dipendenti impedì l’avvio del nuovo piano industriale rendendo ancora più complicato un già difficile salvataggio, sarebbe inaccettabile di fronte a tante risorse messe in campo a spese dei contribuenti. Ma quando di mezzo c’è l’interesse dei partiti e il rischio di perdere consensi, anche il più energico degli amministratori può finire in angolo. Il rapporto “particolare” tra partiti, sindacati e dipendenti instauratosi nella vecchia Alitalia è stato alla base di molti degli errori commessi dalla compagnia aerea negli ultimi decenni. Nessuno intende negare la necessità che tra azienda e dipendenti, di qualunque categoria, si instauri una dialettica che tenga conto delle istanze che salgono dal basso; sono i privilegi “fuori bilancio” benedetti dai partiti e sostenuti con denari pubblici che risultano inaccettabili a chi paga regolarmente le sue brave tasse e accetta suo malgrado di correre i rischi connaturati alle crisi cicliche dell’economia. Quel che è certo è che il mercato aereo post-pandemia sarà estremamente sfidante e non ci sarà posto per compagnie che non riescono a liberarsi dai lacci politico-sindacali. Ecco perché i 3 miliardi destinati a Ita, pur essendo una cifra ingentissima, potrebbero non bastare: va messo in conto anche il costo della politica.

Fabio Lazzerini: «Vi presento la mia ITA. Aerei green e hi-tech: così si prepara a decollare»

Fabio Lazzerini: «Vi presento la mia ITA. Aerei green e hi-tech: così si prepara a decollare»
Fabio Lazzerini: «Vi presento la mia ITA. Aerei green e hi-tech: così si prepara a decollare»

Uno dei vantaggi è che si parte da zero o quasi e vorrei come linee guida per la nuova compagnia una sorta di “S” al cubo che sta per sostenibilità economica, ambientale e sociale». Fabio Lazzerini, classe 1964, una laurea in economia alla Bocconi, la passione per le scalate e la bici, è da meno di un mese alla guida di ITA, Italia Trasporto Aereo, il vettore che nasce dalle ceneri di Alitalia e che, almeno nelle intenzioni, deve aprire un nuovo ciclo. La cloche è in buone mani perché Lazzerini ha fatto molto bene come direttore generale di Emirates Italia e conosce a fondo l’azienda che guida insieme al presidente Francesco Caio. Caparbio e dinamico, ha il compito di decollare in fretta, sfruttando il primo spiraglio che si aprirà nella crisi che avvolge il settore.

«Guardi – dice nella sua prima intervista, arrivando in bici all’incontro nel centro di Roma – che non si tratta di slogan. ITA deve partire dalla sostenibilità ambientale che significa nuovi aerei green e tecnologicamente avanzati, con meno costi per i carburanti e la manutenzione, e servizi migliori per i passeggeri. Deve aver presente la missione di sostenibilità sociale, avendo il potenziale per essere una delle aziende più rilevanti per l’economia nazionale. Da ciò deriva la sostenibilità economica. Perché è tutto collegato. In una azienda di servizi la persona è al centro».

Parliamo della flotta allora: avrete solo due famiglie di aeroplani, Boeing e Airbus?

«Non adotteremo i modelli del passato. Sicuramente tenderemo a semplificare molto la flotta uniformandola a pochi modelli per raggiungere l’efficienza operativa ed economica. Inoltre, razionalizzeremo le configurazioni, compreremo aerei di nuova generazione, offriremo un servizio di qualità che avrà un forte impatto sul cliente. La flotta obsoleta verrà dismessa e poi, va detto, in questo periodo di crisi, è conveniente andare sul mercato per avere una flotta omogenea, verde e con tanti comfort per i passeggeri».

Con quanti aerei decollerà ITA e quando?

«Il piano industriale è in piena lavorazione, ma non ancora finalizzato. Ora la vecchia Alitalia ha 104 aerei: è probabile che nell’arco del piano quinquennale ci posizioneremo su un numero simile di aeromobili, ma con mix diverso e con un ribilanciamento a favore della flotta di lungo raggio per colmare un gap importante di connettività del Paese».

Ma partirete con 70-75 aerei?

«Molto dipende da come sarà il mercato dopo la pandemia, nessuno oggi può dirlo».

Avrete una dote complessiva di 3 miliardi, la flotta sarà tutta di proprietà?

«L’obiettivo è avere il 60% degli aerei di proprietà e il 40% in leasing operativo».

Per puntare sul lungo raggio…

«Lungo raggio per le tratte ad alto valore aggiunto nel segmento corporate e leisure. Ovviamente le tratte sono principalmente quelle del Nord America, Sud America ma anche Asia in modo selettivo. Presidieremo il medio e corto raggio sia per servire i segmenti corporate che per assicurare un adeguato feederaggio al nostro hub. E ci svilupperemo in modo flessibile appena il vaccino consentirà al mercato del trasporto aereo di ripartire. L’obiettivo, in questa fase, è di intercettare la ripresa, riposizionando la compagnia su quote di mercato superiori al passato».

Anche facendo di Cityliner una sorta di concorrente per le low cost?

«Non è nei nostri programmi, ma saremo flessibili e rapidi nelle risposte. Intendo creare un’azienda piatta, senza stratificazioni burocratiche, con pochi livelli decisionali e, punto centrale, fortemente digitalizzata».

Che significa?

«Significa che investiremo molto in tecnologia. Che cambieremo radicalmente rispetto al passato e saremo all’avanguardia, sia nei processi operativi che nei servizi al cliente. Su un palmare, tanto per fare un esempio, ci saranno tutte le informazioni relative al passeggero, le sue preferenze, il controllo in tempo reale sui bagagli a bordo, e si potranno gestire da remoto tutte le interazioni, finanche un eventuale upgrading, cioè il passaggio a una classe superiore. Tutto in tempo reale e con procedure snelle. Il nostro passeggero sarà molto coccolato. Anticiperemo i suoi desideri. Il personale avrà un ruolo chiave nel successo di Ita, verrà coinvolto, lavoreremo perché si identifichino con la nuova missione al servizio del cliente».

Quanto personale avrete? Si parla di circa 7000 dipendenti…

«Quello funzionale alla compagnia. Anche il numero iniziale sarà legato al piano, dipende dall’evoluzione del mercato».

Una parte dei dipendenti resterà nella società in amministrazione straordinaria?

«E’ probabile. Saremo molto competitivi, rivoluzionando i tempi di risposta al mercato e a tutta l’organizzazione. Sfrutteremo l’intelligenza artificiale in molti processi, dalle prenotazione ai controlli. Per la digitalizzazione investiremo 200-300 milioni».

Come svilupperete il network?

«Linate coltiverà la vocazione per il medio raggio con attenzione particolare al corporate. Fiumicino sarà l’hub. Connettività tra voli domestici, internazionali e lungo raggio verso Nord America, Sud America, Asia, Africa. Non cresceremo per mettere bandiere ma lo faremo in maniera selettiva. Sfrutteremo all’inizio le tratte Covid free, verso gli Usa, poi il resto. Attenzione anche al Giappone. Non manterremo rotte in perdita».

Rivedrete le alleanze?

«Nessuno sa cosa accadrà nel 2022 quando, presumibilmente, la crisi sarà passata. Di certo le alleanze vanno rinegoziate. Ascolteremo Delta, ma sentiremo anche Lufthansa e chiunque approcci questo progetto con prospettive serie e di lungo periodo».

Solo partnership commerciali, quindi?

«Sì. Poi, in un secondo tempo, si potrà parlare di altro, ipotizzare scambi azionari. Di certo gli accordi dovranno essere profittevoli».

E la Cina?

«Non la escludo. Siamo aperti a ogni discussione. Punteremo sul cargo, che con l’e-commerce avrà forte impulso. Siamo in grado di metterci al servizio del Paese per trasportare i vaccini, abbiamo le competenze».

Come affronterete il tema dell’handling?

«Siamo aperti a partnership anche qui, così come nel settore della manutenzione dove pensiamo ad un polo di eccellenza».

Il piano è ambizioso, come farete a dimostrare la discontinuità che l’Europa chiede?

«Per prima cosa dimostrando che il piano industriale rappresenta un’operazione di mercato e ha nella sostenibilità economica la sua ragion d’essere. Inoltre, strutturalmente ci sarà una holding che controllerà il settore volo (piloti, hostess, staff, ecc) e due società distinte per manutenzione ed handling. Queste due realtà saranno aperte ad investimenti industriali che ci permettano di competere sul mercato. ITA avrà il 70% delle attività concentrate sul mercato globale, ribaltando l’assetto della vecchia Alitalia. L’organizzazione sarà completamente diversa, sostanzialmente diversa ben più che “esteticamente” diversa. Una rivoluzione di mercato»

E le tariffe?

«Saranno in linea con il servizio di qualità che offriremo. Con nuove configurazioni della business, più comfort e servizi a bordo. Coerenti con la missione che ci siamo dati».

© RIPRODUZIONE RISERVATA