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Giovanni Tamburi, fondatore di Tip: «La mia Itaca è un’isola dove la nave-impresa si ricarica per ripartire»

Giovanni Tamburi, fondatore di Tip: «La mia Itaca è un'isola dove la nave-impresa si ricarica per ripartire»
Giovanni Tamburi, fondatore di Tip: «La mia Itaca è un'isola dove la nave-impresa si ricarica per ripartire»

Giovanni Tamburi, lei è uno dei principali investitori privati italiani, ed è un profondo conoscitore del mondo delle imprese: come giudica il Recovery Plan?

«Nelle ultime settimane è migliorato nei contenuti ma è sempre il risultato di una classe politica superficiale, poco attenta alla sostanza, ma soprattutto lontana dai veri temi delle imprese, fondamento essenziale del nostro Paese. Non parliamo poi della ormai chiaramente voluta disattenzione sul turismo. Il tema vero sarà chi e come dovrà darne esecuzione. Una greppia di quelle dimensioni…».

La Borsa però sembra aver reagito bene, sebbene le critiche siano copiose.

«I mercati e la finanza vanno avanti da soli, sono sostenuti da altre cose. Anzi, adesso si dovrà fare grande attenzione. Con le massicce erogazioni da parte della mano pubblica che andranno in parte anche alle imprese, c’è il rischio che le scelte della politica sui settori o su singoli operatori possano condizionare fatturati e margini, e dunque alterare la capacità competitiva».

La ripresa economica dipende dai vaccini e dalla pandemia. Bankitalia è più negativa delle proiezioni di governo, lei da che parte sta?

«Credo che a maggior ragione oggi fare previsioni di quel tipo non abbia un gran senso. Certe istituzioni sono obbligate a fare delle proiezioni; oggi chi vive nelle imprese guarda gli ordini e può spingersi a pensare su ciò che potrà succedere nelle settimane successive, non di più, e questo è particolarmente vero in numerosi settori. Chi poteva immaginare questo lockdown mondiale, che dura ininterrottamente da ottobre e di cui nessuno è veramente in grado di ipotizzare la fine?».

Non pensa che questa crisi abbia reso più obsoleto il nostro sistema industriale e che ora ci sia necessità di aprirsi a nuovi soci e capitali freschi?

«Da decenni predico, scrivo ed incito gli imprenditori ad innovare e investire, ma più che altro a fare tre cose: aggregarsi, quotarsi in Borsa o aprire il capitale delle loro aziende. E ciò non perché il sistema industriale sia obsoleto, ma perché in un mondo globale bisogna ragionare in modo aperto, non facendo riferimento solo a famiglie chiuse, ambiti ristretti, paura di diluirsi o confrontarsi. Abbiamo migliaia di bravi imprenditori e continuiamo ad insegnare al mondo centinaia di mestieri, ma fare sistema è sempre più essenziale».

Disaggregando i dati si evince che tutti necessitano di aiuti per supportare i dipendenti, anche se il manifatturiero produce ed esporta: cosa serve per il rilancio a parte la Cig?

«La Cig non ha mai rilanciato nessuno, anzi. Ha dato alibi per non fare, ha coperto costi, per cui è stata e sarà essenziale per coprire i periodi di flesso sulle produzioni, ma le aziende si rilanciano con aiuti ad esportare, con infrastrutture che funzionano, con incentivi alle fusioni e poi con la certezza del diritto, che non c’è. E trattiene molti dall’investire».

Itaca è il nome del veicolo di investimento costituito da TIP insieme a 40 famiglie e ad alcuni manager, a cominciare da un esperto delle ristrutturazioni (Sergio Iasi), per investire in aziende in difficoltà che però, avendo un buon modello di business, possono riposizionarsi. Si dice di adesioni per 600 milioni, un importo mai raggiunto da un club deal in Italia. È la vera ricetta per aiutare le imprese post-Covid?

«Se sia “la” ricetta vera non lo so. Ma uno degli aiuti migliori possibili certamente sì. Come sappiamo le imprese italiane sono sottocapitalizzate, a volte anche di molto. Poi nel settore delle special situation addirittura ci sono solo due operatori italiani in grado di mettere equity fresco nelle società in difficoltà finanziaria, di cui uno specializzato in operazioni piccole. Le pare logico, in un grande e moderno paese come il nostro? Per cui la dotazione di capitali a nostra disposizione potrà aiutare molte imprese a riprendere il largo dopo aver sostato nel cantiere Itaca. Anche perché è frustrante, lo dico come cittadino più ancora che da operatore economico, leggere che ogni giorno qualcuno compra a sconto crediti deteriorati, spingendo le banche verso nuove difficoltà. Dobbiamo fare sistema con banche e professionisti per far uscire le imprese sane dai loro problemi, iniettando risorse umane e finanziarie, credendo nei progetti di sviluppo».

 Quali sono i dossier sul suo tavolo oltre a Moby, Pizzarotti, aziende della componentistica auto, e meccanica?

«Tantissimi, non immaginavo. Molti sono di size troppo piccola per noi, ma la base su cui lavorare è notevole, anche per dare una mano in ottica di quel consolidamento utile per competere meglio a livello internazionale».

Non ritiene che sia efficace una soluzione che coinvolga imprenditori in una management company che investa in imprese di grandi dimensioni come Alitalia e Ilva?

«Lasciamo ad enti pubblici o partecipati dal pubblico certe operazioni. Voi dei media dovreste però concentratevi sull’Italia vera, quella delle medie imprese che tengono in piedi il paese, che pagano tutti i nostri stipendi, non di due o tre nomi che fanno notizia ma rappresentano assai poco del sistema paese. Su Ilva comunque sono riusciti a fare un gran pasticcio, distruggendo la più importante acciaieria d’Europa sull’altare di demagogie, burocrazie incapaci, conflitti di potere e incompetenze di tanti».

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Crisi aziendali, ex Ilva, Whirlpool e le altre: i cento tavoli che scottano a caccia del cavaliere bianco

Crisi aziendali, ex Ilva, Whirlpool e le altre: i cento tavoli che scottano a caccia del cavaliere bianco
Crisi aziendali, ex Ilva, Whirlpool e le altre: i cento tavoli che scottano a caccia del cavaliere bianco

Il modello potrebbe essere quello seguito per salvare la ex-Embraco di Chieri, per chiudere almeno alcuni dei 102 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo Economico finora in capo a Stefano Patuanelli. Un tandem pubblico-privato per dare un futuro alle imprese in crisi e mettere al sicuro l’occupazione (oltre 110.000 lavoratori) che vada oltre la semplice toppa della cassa integrazione. La strada è in salita considerato il conto pesante che sarà presentato prima o poi dall’emergenza pandemica quando verranno meno, seppure gradualmente, i sostegni pubblici. Un certo numero di default, non modesto, va messo in conto. Alle spalle c’è infatti un 2020 difficile che ha seminato nuove disgrazie. La battaglia sul campo delle crisi industriali ha comunque prodotto qualche risultato: stando alle fonti del Mise, in un anno ha messo in sicurezza, almeno per ora, più di 15 aziende e 30mila lavoratori. È stato per esempio trovato un investitore per Stefanel (Ovs), è riuscita l’impresa di riportare la produzione in Italia nel caso Pernigotti; oppure, meno esaltante, si sono blindati con la Cig per cessata attività tutti i lavoratori di MercatoneUno (1.731) fino a novembre 2021: resta comunque un brutto epilogo per un marchio che sparisce e brandelli di negozi con esposto il cartello vendesi. Il punto è che le centinaia di verbali delle riunioni fiume tra tecnici del ministero, aziende e sindacati finiscono quasi sempre con la stessa, sperata, via d’uscita: l’intervento di un investitore privato, di un cavaliere bianco capace di salvare il salvabile. D’altro canto, una crisi così profonda e un clima di incertezza così diffuso non sono gli ingredienti migliori per attrarre capitali, soprattutto se domestici. Anzi, semmai è più facile lasciare il campo, come hanno scelto di fare i cinesi di Wanbao, o decidere di trasferire il 70% della produzione in Ungheria, come è nelle intenzioni di Sematic: la crisi Covid è infatti un’ottima scusa per chiudere definitivamente gli stabilimenti.

LA SPONDA DI INVITALIA

Eppure la caccia è partita su più fronti. Si cercano investitori per Goldoni, il sito della cloro-soda dell’Eni a Marchiareddu in Sardegna; o per la Semitec (servizi tlc); o per Ami-Acque minerali d’Italia, che potrebbe essere salvata dal Fondo Clessidra. Per le Officine Maccaferri è arrivata l’offerta in asta a fine dicembre di un gruppo di fondi guidato da Carlyle; per la Meridbulloni di Castellammare di Stabia si è fatto avanti il gruppo Vescovini; mentre si fanno i conti ancora con l’affare Ilva-ArcelorMittal, o con il dossier Whirlpool. E si aspetta di raccogliere i frutti di pratiche considerate chiuse come Stefanel, appunto, o Corneliani, per la quale è scesa in campo BasicNet. O per Italcomp. Pratiche che ora rischiano di rallentare pesantemente vista la crisi di governo. Le ambizioni del Conte bis (ormai ex) erano che nuovi investitori, italiani ed esteri, trovassero la spinta necessaria per farsi avanti nel Fondo di gestione per le crisi di impresa, ma per il momento non se ne ha notizia. In ogni caso, il nuovo strumento di Invitalia capace di portare lo Stato con una quota di minoranza in un’azienda con oltre 250 dipendenti, che custodisca marchi made in Italy o attività strategiche e in difficoltà economiche, alla quale possano bastare 10 milioni di euro per proseguire l’attività e salvare l’occupazione, ora è operativo. Il via libera ufficiale alle domande per accedervi (300 milioni la dotazione iniziale, più altri 250 milioni nel 2021) è scattato il 2 febbraio. Ma potrebbe non bastare. E dunque, a che punto sono le 102 pratiche aperte al Mise a cui si aggiungono almeno una ventina in via di risoluzione?

GLI ULTIMI TRAGUARDI

Sono circa 70 i tavoli aperti da più di tre anni e 28 quelli che impegnano il Mise da oltre sette. Fra quelli chiusi sotto la regia del sottosegretario Alessandra Todde proprio nelle ultime settimane, figurano la Dema (700 dipendenti), grazie all’accordo con l’Inps per la rateizzazione del debito e al supporto di Invitalia attraverso i Contratti di sviluppo; quindi Whirlpool Teverola, con la creazione di un polo delle batteria al litio da 675 persone di cui 175 ex dipendenti della multinazionale; infine la Sicamb. Tra i dossier roventi che si stavano seguendo prima dello stop imposto dalla crisi di governo, rimane invece quello della Italcomp, il nuovo polo italiano dei compressori nato dall’ex Embraco di Chieri (società in fallimento con oltre 400 addetti in Cig) e l’ACC di Mel a Belluno, che occupa oltre 300 addetti. In questo secondo caso, l’idea consiste in un piano industriale pubblico-privato da 50 milioni che sembrava potesse inciampare nell’ok Ue; senonché proprio in questi giorni si è deciso di sbloccare un finanziamento di 12 milioni con garanzia Sace. Su un percorso simile si muove la Sicamb (290 dipendenti), la storica azienda aeronautica di Latina in cui entra anche il fondo di Singapore St Engineering Aerospace. E sempre con l’intervento del Fondo di Invitalia dovrebbe risolversi il rilancio della storica azienda tessile mantovana Corneliani grazie al piano industriale atteso da Marco Boglione: per il 5 febbraio, data prevista per il cda, la società dovrebbe riuscire a garantire l’immissione di liquidità necessaria per evitare il blocco della produzione in attesa che sia formalizzata la manifestazione di interesse per l’acquisto di una quota azionaria da parte di BasicNet. Boglione ha tre mesi di tempo, fino al 15 aprile, per decidere se rilevare il gruppo, secondo quanto concesso dal Tribunale di Mantova.

MISSIONI IMPOSSIBILI O QUASI

Vanno poi considerati due campi di battaglia importanti, quale il complesso caso Whirlpool di Napoli, circa 330 lavoratori per i quali la multinazionale americana intende avviare la procedura di licenziamento dall’1 aprile prossimo, e la vicenda Treofan di Terni. In questo secondo caso, di fronte alla mossa degli indiani di Jindal, dovrebbe essere la Cig per 9 mesi a coprire i 147 lavoratori fino alla vendita gestita dal Mise. Un passaggio non facile visto che gli indiani puntavano a non vendere lo stabilimento per evitare la minaccia della concorrenza. Rimangono poi sul tavolo vertenze pesanti come quella con Jsw sulla riconversione industriale dello stabilimento siderurgico di Piombino, 1.600 i dipendenti da salvaguardare. Inoltre prosegue, sebbene di difficile gestione, il tavolo su Jabil di Marcianise, 130 i lavoratori a rischio. Nulla ancora di concreto anche per la Goldoni e per gli oltre 200 lavoratori dopo la richiesta improvvisa, a settembre scorso, di concordato liquidatorio da parte della proprietà cinese Lovol a soli 5 anni dall’acquisizione. Richiesta poi messa in discussione dall’annuncio, il 6 gennaio scorso, dell’acquisizione da parte di Weichai Holding Group, il colosso pubblico cinese della meccanica (lo stesso che ha acquistato e rilanciato Ferretti Yacht), del 60% proprio della cinese Lovol. A questo punto pare che ci sia il via libera al rilascio del marchio da parte della società dello Shandong che può sbloccare la vendita dell’azienda produttrice di macchine agricole di Migliarina di Carpi, in provincia di Modena. Il Mise ha in corso contatti anche con un altro potenziale compratore: il gruppo belga Keestrack, che costruisce macchine stradali e non trattori ma ha già uno stabilimento in Italia, a Ponzano Veneto. Anche i 150 dipendenti della Betafence attendono certezze, al momento di là da venire. ILVA & COMPAGNI Intanto l’accordo tra Invitalia e ArcelorMittal per l’ingresso dello Stato nel capitale della multinazionale che gestisce gli impianti siderurgici di Taranto, ha fatto migrare il dossier dal tavolo di crisi a quello di monitoraggio sull’attuazione del piano industriale e sul necessario accordo con i sindacati, compresa l’integrazione dei 1.700 lavoratori in Cig. Infine, il 2021 sarà anche l’anno dell’ennesima sfida sul fronte Alitalia: non è un capitolo di pertinenza del Mise, fa capo al Tesoro , ma è una crisi aziendale del Paese. Ed è probabilmente la più costosa.

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Termini Imerese, nell’idrogeno la resurrezione: il sito siciliano potrebbe rinascere all’insegna del green

Termini Imerese, nell'idrogeno la resurrezione: il sito siciliano potrebbe rinascere all'insegna del green
Termini Imerese, nell'idrogeno la resurrezione: il sito siciliano potrebbe rinascere all'insegna del green

Niente più automobili, che nell’ultimo decennio non è che abbiano portato tanta fortuna al territorio di Termini Imerese. Il futuro dell’area ex Fiat siciliana potrebbe avere un volto completamente diverso: energie rinnovabili, riciclo dei materiali, intelligenza artificiale. E anche mobilità con veicoli a due ruote elettrici e monopattini anche questi elettrici. Una ventina di aziende – tra queste anche alcune startup – impegnate nell’economia green e circolare sono pronte a rilanciare l’area. Sono imprese del Nord, del Centro e del Mezzogiorno: si sono riunite in un consorzio e hanno messo a punto il progetto S.U.D., Smart Utility District. E il 2021, esattamente dieci anni dopo la decisione dell’allora amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne di chiudere il sito industriale, potrebbe essere l’anno della rinascita per Termini Imerese e per i circa 800 operai che ancora pagano lo scotto della sfortunatissima vicenda Blutec. Invitalia, la società al cento per cento del Tesoro, sta valutando la solidità del progetto. In ballo ci sono tanti soldi a fondo perduto messi da Stato, Regione e Ue e – a maggior ragione dopo le vicende di malversazione da parte dei vertici di Blutec per le quali pende un giudizio penale – è giusto essere cauti e prudenti. Con un occhio però al calendario. Perché in Sicilia sono almeno dieci anni che aspettano una vera soluzione per Termini Imerese, e sarebbe pure ora di trovarla. Il progetto S.U.D comunque non è l’unico arrivato sulla scrivania dei commissari straordinari che stanno gestendo il fallimento di Blutec, la società che nel 2016 sottoscrisse un accordo per rilanciare il sito industriale con la costruzione di auto elettriche. I soldi pubblici furono erogati, le auto non si sono mai viste. A novembre si è fatto avanti anche un altro consorzio (Sit) e non mancano singole aziende interessate a far parte del nuovo distretto.

LA NEWCO

Intanto a breve dovrebbe concretizzarsi la procedura concordataria attraverso la quale i commissari straordinari di Blutec conferiranno l’intera area industriale dell’ex Fiat a Termini Imerese a una newco costituita da più soggetti pubblici, compresa Invitalia. Sarà poi questa newco ad affittare i rami di azienda. Il consorzio Smart City Group è stato il primo, in ordine di tempo, ad aver presentato la manifestazione di interesse. Il che ha portato i rappresentanti già a varie riunioni al Mise, con i commissari straordinari e con le istituzioni locali. Viola, fucsia, grigio, ceruleo. E poi verde malachite, rosso vivo, rosso granata e rosso cremisi. Se il progetto dovesse avere il via libera, potrebbero colorarsi così i capannoni all’interno dei 42 ettari del sito industriale di Termini Imerese. Ogni colore un tipo di produzione diverso. Dalle nano-piastrine ingegnerizzate di grafene (progetto malachite della Graphene Company) al trattamento di oli esausti alimentari recuperati per la bioplastica (colore rosso granata, progetto di EcoEnergy e Sicilgrassi); dalle batterie al litio (progetto rosso di Danisi Engineering) a quello ad accumulo più innovative (G.E.S.S.); dalla produzione di fertilizzanti e di gas tecnici, medicinali ed energetici, al trattamento e pulizia delle acque; dalla “coltura idroponica” degli ortaggi alle meraviglie dell’intelligenza artificiale (progetto viola) per semplificare la relazione fra cittadino e pubblica amministrazione. Non manca la creazione di un Parco Scientifico e Tecnologico e un Laboratorio per l’Innovazione e la Ricerca Avanzata e applicata (LIRA) al quale sono pronti a partecipare ben 18 atenei. Il progetto S.U.D. nel suo complesso per partire necessita di 200 milioni di euro. Il 75% dovrebbe arrivare a fondo perduto. E qui – è ovvio – la valutazione della fattibilità deve essere quanto più scrupolosa possibile. C’è poi la questione occupazione. «La nostra priorità è l’assorbimento dell’intera forza lavoro attualmente in cig» sottolinea l’avvocato Fabrizio Grasso, uno dei tre commissari straordinari Blutec. Si tratta di circa 800 persone. Il progetto S.U.D. indica per la prima fase una forza lavoro complessiva del 70% della platea. «A regime pensiamo di arrivare a circa 1.500 persone, compreso l’indotto» assicura Giancarlo Longhi presidente del consorzio. I sindacati però chiedono che ad assumere sia un soggetto unico e non frammentato in una pluralità di attori fra di loro giuridicamente distinti.

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Da multiutility a multicircle, la metamorfosi del gruppo Iren

Da multiutility a multicircle, la metamorfosi del gruppo Iren
Da multiutility a multicircle, la metamorfosi del gruppo Iren

Il paradosso dell’emergenza Covid è che mentre in tutto il mondo le principali produzioni industriali si sono fermate per effetto del lockdown, gran parte delle aziende immerse nei processi di trasformazione digitale e di transizione energetica hanno fatto salti da gigante nella direzione dello sviluppo. Al punto da dover ricalibrare la mission e riposizionare il brand. Un caso di scuola è sicuramente l’Iren, una delle più importanti e dinamiche multiutility del panorama italiano, attiva nei settori dell’energia elettrica, del gas, dell’energia termica per teleriscaldamento, della gestione dei servizi idrici integrati, dei servizi ambientali e tecnologici. Se l’obiettivo di crescita a livello nazionale resta dominante, la società emiliana di recente ha annunciato di voler diventare leader nella sostenibilità attraverso lo sviluppo della “multicircle economy”, confermando il forte radicamento nei territori storici.

La multicircle economy è la strategia di crescita che estende il concetto di economia circolare, enfatizzando la natura multi-business del gruppo e la visione industriale a lungo termine focalizzata sull’uso consapevole ed efficiente delle risorse. Non solo gestione efficiente dei rifiuti, dunque, ma anche del ciclo idrico e della produzione di calore. Legno, plastica, energia, acqua: tutto può avere una seconda vita, persino una terza e addirittura una quarta. Proprio su questa nuova visione Iren ha così programmato una parte rilevante degli investimenti annunciati nel Piano al 2025. Basti dire che il 61% degli investimenti totali (3,7 miliardi) è riconducibile a voci sostenibili e oltre 2 miliardi sono attribuibili alla multicircle economy. Quotata in Borsa e partecipata da circa 100 Comuni, Iren opera in un bacino multiregionale di oltre 8 milioni di abitanti, con circa 8.100 dipendenti, ricavi superiori a 4 miliardi, un portafoglio di circa 1,9 milioni di clienti nel settore energetico, 2,8 milioni di abitanti serviti nel ciclo idrico e 3 milioni nel settore ambientale. È il primo operatore nazionale nel settore del teleriscaldamento, tanto che gestisce la rete della città più teleriscaldata d’Italia, Torino, servendo oltre 600.000 abitanti.

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Dai trasporti ai rifiuti, Venezia smart city: vita in laguna con il modello digitale Tim

Dai trasporti ai rifiuti, Venezia smart city: vita in laguna con il modello digitale Tim
Dai trasporti ai rifiuti, Venezia smart city: vita in laguna con il modello digitale Tim

Venezia città pilota per la città del futuro dove comunicazioni 5G, digitale e intelligenza artificiale diventano la piattaforma per gestire al meglio traffico, rifiuti, turismo, emergenze e mobilità rendendo la vita più sicura e l’ambiente meno inquinato. Dopo oltre un anno e mezzo di lavoro e sperimentazioni, lo scorso settembre è stata inaugurata nell’Isola Nuova del Tronchetto la Control Room realizzata in partnership con l’amministrazione comunale di Venezia. Il progetto, unico in Italia, riunisce in una cabina di regia tecnologie per migliorare la mobilità e la sicurezza della città realizzando un modello di intelligenza urbana e gestione dei flussi che potrà essere esteso a tutti i Comuni italiani. Una rivoluzione 5G di Tim applicata alle città per realizzare le smart city del futuro. La cabina di regia dell’Isola Nuova del Tronchetto raccoglie dati e flussi video provenienti dalle diverse centrali e dai sensori distribuiti sul territorio e li mette a disposizione, in tempo reale, di un team di operatori esperti delle strutture coinvolte: le società di trasporti locali terra-acqua Actv/Avm, Centro Maree, Comune, Polizia Locale, Protezione Civile, Venis e Veritas, la municipalizzata che tra l’altro gestisce la raccolta dei rifiuti nel Veneziano.

LA PROCEDURA

I dati rilevati vengono elaborati garantendo il pieno rispetto della privacy e le informazioni – che spaziano dal numero delle persone presenti in città alle tipologie di imbarcazioni in transito nei canali, dai passaggi dei mezzi pubblici al controllo del flusso turistico, fino alle previsioni meteo e alla disponibilità dei parcheggi – sono rappresentate visivamente sui grandi video-wall della cabina di regia, permettendo agli operatori di verificare eventuali esigenze di intervento in tempo reale. «L’investimento complessivo è stato di quasi 3 milioni e si è sviluppato dal 2019 per arrivare a diventare operativo dalla primavera del 2020 – spiega Alessandro De Sanctis, responsabile dei rapporti col settore pubblico nel Nordest di Tim – Nel corso della sua realizzazione abbiamo superato con successo due grandi emergenze per la città, la marea eccezionale del novembre del 2019 e la pandemia dell’anno scorso, e questo grazie anche all’eccellente collaborazione col Comune di Venezia». Insomma, la Smart Control Room è a prova di grande crisi. «Assolutamente, la possibilità di mettere in sinergia big data, informazioni dalla nostra rete comunicazione, immagini e i trend topic di Twitter (presto potremo anche utilizzare gli altri social network) ci consente di segnalare all’amministrazione in tempo reale 24 ore su 24 particolari emergenze – ricorda De Sanctis – come per esempio un incendio oppure assembramenti in spazi ristretti o ancora avvertire via smartphone di canali che con l’alta marea diventano non navigabili per le barche, possibili code per Venezia sul Ponte della Libertà o la fermata non prevista di un tram. E in futuro anche gestire il traffico navale rispetto anche ai possibili sollevamenti delle barriere del Mose».

IL POLO TECNOLOGICO

Intelligenza artificiale, sensori per l’Internet delle cose, cloud computing, piattaforme per l’analisi dei dati e connettività 5G: per il progetto Smart Control Room di Venezia, che ha coinvolto Olivetti, società specializzate e l’università di Bologna che ha realizzato gli algoritmi che gestiscono le informazioni, il gruppo Tim ha messo in campo le migliori tecnologie disponibili. Un esempio di collaborazione tra pubblico e privato con l’amministrazione comunale a fare da stimolo e decisore strategico. «Presidiamo al meglio la frontiera dei trend tecnologici e ci poniamo sul mercato con servizi di alto valore dedicati anche a una gestione più efficiente dei territori», ricorda Roberto Tundo, ad di Olivetti. Nella Control Room, i pannelli di controllo sui vari campi operativi messi a disposizione dei tecnici abilitano diverse possibilità di analisi dei dati raccolti e sono in continua evoluzione. «Grazie all’intelligenza artificiale i nostri sensori “imparano” sul campo per esempio a distinguere i vari tipi di imbarcazione in movimento ma possono anche permettere di individuare la provenienza dei turisti e monitorare i flussi di entrata», sottolinea De Sanctis. Il progetto Scr ha portato alla creazione di un polo tecnologico all’avanguardia in Italia che ha dato prova di grande efficacia anche nel corso del lockdown e nella gestione della pandemia da Covid. In particolare, la Control Room dove lavorano decine di tecnici, ha consentito all’amministrazione comunale di mantenere un collegamento diretto con la cittadinanza e, in prospettiva, offrirà un efficace strumento di supporto anche per la gestione dei flussi turistici, dell’illuminazione pubblica e della raccolta dei rifiuti.

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Irpef alla tedesca per alleggerire il peso su lavoro e redditi medi: il modello allo studio del governo

Irpef alla tedesca per alleggerire il peso su lavoro e redditi medi: il modello allo studio del governo
Irpef alla tedesca per alleggerire il peso su lavoro e redditi medi: il modello allo studio del governo

Quanta parte del reddito lordo aggiuntivo riesce a mettersi in tasca un lavoratore che riceve un aumento di stipendio o decide di fare degli straordinari? E quanto invece va allo Stato sotto forma di imposte e contributi? Anche questo è un criterio per giudicare un sistema fiscale: anzi, come spiegano molti economisti, è un criterio a cui guardare con attenzione perché la tassazione può avere un ruolo importante nell’incoraggiare o scoraggiare la scelta di lavorare di più e in generale il lavoro stesso. Vista sotto questo profilo la nostra Irpef (che per il lavoratore dipendente è la principale componente del cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo”) si presenta in modo piuttosto anomalo: non solo l’imposta è alta, ma colpisce in modo piuttosto erratico gli incrementi di reddito. Quella che in gergo tecnico si chiama “aliquota marginale effettiva” (si veda il riquadro in questa pagina) procede infatti a sbalzi arrivando al 60 per cento nella fascia di reddito che va dai 35 mila a 40 mila euro l’anno.

IL DISINCENTIVO

Questo vuol dire che su un eventuale incremento retributivo di 1.000 euro (ipotizzando che già siano stati dedotti i contributi sociali) la sola Irpef ne assorbirebbe circa 600, senza contare l’effetto delle addizionali locali: nelle tasche dell’interessato resterebbe quindi meno della metà dell’importo originario. Insomma una sorta di disincentivo a guadagnare di più che – paradossalmente – è l’effetto della positiva novità scattata dal luglio scorso per i lavoratori dipendenti: quella “ulteriore detrazione” introdotta per alleggerire il carico in particolare su chi ha un reddito fino a 40 mila euro. Siccome l’importo del beneficio decresce piuttosto rapidamente, ecco che all’aumentare dello stipendio la tassazione sale a sua volta in modo brusco. Il problema in realtà si pone da tempo e riguarda – pur se in forma meno acuta – l’intera struttura dell’Irpef. Anche per questo tra le ipotesi al centro dell’attenzione, in vista della riforma fiscale programmata per quest’anno, c’è anche una revisione complessiva dell’imposta che guarda ad un esempio leggermente diverso: l’ormai famoso modello tedesco.

La particolarità dell’Einkommensteuer sta nel fatto che non è articolata, come quella di altri Paesi tra cui l’Italia, in scaglioni e aliquote “secche”, ma si calcola invece in base ad una serie di formule che fanno crescere in modo estremamente graduale – al crescere del reddito – sia l’ammontare dell’imposta sia l’aliquota marginale effettiva. Applichiamo allora questo sistema a un lavoratore dipendente con reddito annuo di 35 mila euro: con le regole italiane e in assenza di altre detrazioni dovrebbe versare 7.936 euro, con quelle tedesche (includendo la deduzione standard di 1.000 euro per i dipendenti) 6.338, ben 1.600 in meno. E l’ingombrante aliquota marginale del 61 per cento che abbiamo già visto risulterebbe praticamente dimezzata al 32, lasciando margini più ragionevoli per incrementi di reddito. Il confronto meccanico tra Italia e Germania può in parte essere fuorviante, anche perché il livello medio delle retribuzioni tedesche è sensibilmente più alto; ma la differenza salta all’occhio comunque. E si mantiene visibile in termini di aliquota media fino a livelli decisamente alti di reddito: anche con un imponibile di 100 mila euro l’Irpef netta resta più alta di quasi 2 mila euro dell’imposta calcolata con le regole tedesche. Se invece guardiamo all’aliquota marginale, quella dell’Einkommensteuer diventa più elevata (superando il 41 per cento) intorno a quota 57 mila euro.

LA VIA PRESCELTA

Proviamo quindi a riassumere: una struttura dell’Irpef simile a quella applicata in Germania comporterebbe almeno sulla carta un prelievo più contenuto per i redditi medi e anche medio-alti, mentre per quelli nominalmente più bassi (fino a 25 mila euro circa) il livello della tassazione è già sostanzialmente analogo, anche grazie alla presenza nella normativa italiana del bonus 80 euro, ora cresciuto a 100. Inoltre, in virtù di aliquote marginali che crescono in modo “dolce” e senza salti bruschi, il sistema risulterebbe molto meno penalizzante nei confronti di coloro che avendo una retribuzione fino a 50-55 mila cercano di incrementarla: ad esempio lavorando di più. Naturalmente anche se questa fosse la via prescelta dal governo che verrà, il passaggio al modello tedesco non potrebbe non tener conto dell’attuale struttura dell’Irpef e quindi della necessità di ridurre il prelievo su determinate fasce senza inasprirlo però su altre. La curva Irpef andrà rivista nel suo complesso, anche per evitare effetti collaterali indesiderati: appunto come quelli derivanti dal recente taglio del cuneo fiscale, che ha indubbiamente premiato i redditi tra 28 e 40 mila euro al prezzo però di “incastrarli” in aliquote marginali sfavorevoli. Alla fine quindi molto dipenderà, oltre che dal design della nuova imposta, dagli spazi di bilancio disponibili; ovvero dalla quantità effettiva di gettito a cui lo Stato potrà rinunciare sui circa 190 miliardi garantiti annualmente dall’Irpef.

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LA SCHEDA

L’aliquota media e quella marginale – Come si misura l’incidenza dell’imposta sul reddito

Sono due i parametri essenziali per valutare l’impatto di un’imposta sul reddito personale. L’aliquota media è data dall’incidenza percentuale dell’imposta pagata rispetto al reddito. Ad esempio in Italia un lavoratore dipendente con un imponibile annuo di 30 mila euro paga il 23% sui primi 15 mila, il 27% sui successivi 13 mila e il 38% sugli ultimi 2 mila. Ma mettendo nel conto anche la detrazione per lavoro dipendente e la recente “ulteriore detrazione” verserà 5.683 euro, ovvero quasi il 18,9% del reddito: questa è l’aliquota media. L’aliquota marginale effettiva corrisponde invece al prelievo applicato su una eventuale quota aggiuntiva di reddito: nel caso del nostro lavoratore non equivale all’aliquota più alta (il 38%) perché – ad esempio – 1.000 euro guadagnati in più ne costano 380 di imposta e circa 70 di minori detrazioni: il totale fa 450, ovvero un’aliquota marginale del 45%.

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Dai consumatori agli esercenti, la lotteria degli scontrini fa scontenti tutti
Dai consumatori agli esercenti, la lotteria degli scontrini fa scontenti tutti

È nata come una mossa anti-evasione. Per combattere, cioè, l’italiana ritrosia a battere gli scontrini fiscali. Ma la lotteria degli scontrini partita il primo febbraio sembra fare tutti scontenti. I commercianti per primi. «Non c’è stato abbastanza tempo per fare gli adeguamenti necessari e un negozio su tre non è ancora in grado di partecipare», ha tuonato Marco Bussoni di Confesercenti. Aldo Cursano, presidente vicario di Fipe-Confcommercio, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi, ha rilanciato. «L’unico effetto della lotteria degli scontrini – ha detto – è quello di mortificare le attività che si trovano già in difficoltà. Non c’è infatti da stupirsi se solo il 30% dei pubblici esercizi abbia già adeguato il proprio registratore di cassa a questo nuovo gioco: per chi è stato costretto a rimanere chiuso 160 giorni nel 2020, senza nemmeno vedersi cancellare i costi fissi, 300 euro per aggiornare il software sono una spesa insostenibile». Dai commercianti, probabilmente, le voci critiche erano quasi attese. Il fatto è che a nutrire più di qualche dubbio sono anche le associazioni dei consumatori. «La lotteria degli scontrini rischia di creare discriminazioni tra cittadini e penalizzare chi risiede in zone montane, isolate o non servite da una rete internet adeguata». Lo afferma il Codacons, che condivide il grido d’allarme lanciato oggi dall’Uncem. «Il problema non riguarda solo gli esercenti ma anche e soprattutto i cittadini – afferma il presidente Carlo Rienzi – La lotteria degli scontrini deve consentire a tutti gli utenti di partecipare alle medesime condizioni al concorso e vincere i premi in palio, e non è tollerabile che vi siano discriminazioni a livello territoriale». «La lotteria degli scontrini – ha detto poi il presidente di Consumerismo Luigi Gabriele – determina costi per gli esercenti, dall’adeguamento del registratore di cassa fino alla gestione del caricamento dei codici dei clienti, costi che rischiano di essere scaricati sui consumatori finali attraverso un aumento generalizzato dei prezzi al dettaglio».

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Svolta in Cina sul fintech, spezzato il monopolio dei big Alibaba e Tencent

Svolta in Cina sul fintech, spezzato il monopolio dei big Alibaba e Tencent
Svolta in Cina sul fintech, spezzato il monopolio dei big Alibaba e Tencent

Era svanito nel nulla tre mesi fa, dopo che aveva criticato pubblicamente le limitazioni imposte dall’Authority bancaria di Pechino ai servizi finanziari online (Fintech). Quando il 21 gennaio scorso Jack Ma è ricomparso dagli schermi di una tv di Stato per promuovere lo sviluppo delle aree rurali, in Cina tutti hanno capito il significato di quella messa in scena: l’era del laissez-faire per le big di internet è al tramonto. Il 3 novembre scorso Ma, il più famoso tra gli imprenditori privati della Repubblica popolare, si era visto bloccare all’ultimo minuto l’offerta pubblica iniziale (Ipo) della sua “cassaforte” Ant Group nelle Borse di Hong Kong e Shanghai (37 miliardi di dollari andati in fumo) e il mese successivo l’antitrust aveva aperto un’inchiesta per “abuso di posizione dominante” nei confronti della sua gallina dalle uova d’oro. Alibaba – in base alle nuove norme – potrebbe ricevere una mega multa (fino al 10% del fatturato), per la pratica, denunciata dalle rivali JD.com e Pinduoduo, di punire con una riduzione della visibilità nei suoi negozi virtuali le aziende che vendono anche attraverso siti concorrenti.

LA BABELE

È da almeno un lustro che il governo cerca di mettere ordine nella babele della finanza online cinese, dominata proprio da Ant Group, e seguita a distanza da Tencent (proprietaria di WeChat, il WhatsApp locale) e JD.com, numero due dell’e-commerce cinese. Negli ultimi anni le piattaforme peer-to-peer hanno attratto investimenti pari a decine di miliardi di euro promettendo interessi a doppia cifra, ma concludendo spesso la loro corsa tra scandali e fallimenti. Anche in questo campo la leader è Yeubao, che permette di investire attraverso Alibaba, senza passare per le banche (controllate dallo Stato). Sotto accusa sono finite anche le app di microcredito, che secondo le autorità istigano i giovani a indebitarsi e sono potenzialmente destabilizzanti per il sistema finanziario. Ad esempio, soltanto il 2% dei prestiti concessi (a 500 milioni di cinesi) attraverso le sue piattaforme Huabei e Jebei era riportato nel bilancio presentato da Ant Group in vista della Ipo abortita. A chi sono stati ceduti gli altri crediti? Dopo che per anni la leadership cinese ha dato “carta bianca” alle sue big di internet – attorno alle quali si è sviluppato un ecosistema di migliaia di aziende innovative – quando Alibaba, Tencent e le altre stavano diventando troppo grandi per essere controllate, è scattato l’intervento del Partito comunista. Le autorità di Pechino si sono mosse per spezzare un monopolio costruito a scapito degli operatori statali, a partire dal mercato dei pagamenti online che, nel 2019, ha fatto registrare transazioni pari a 44.000 miliardi di euro, e nel quale potrebbe presto irrompere lo yuan digitale, la moneta sovrana utilizzabile con le app della Banca popolare cinese. Non solo, il governo starebbe per imporre ai suoi giganti di internet di condividere i dati dei loro clienti con la Banca centrale e le sue agenzie, ufficialmente per prevenire operazioni di credito incontrollato e frodi.

OBIETTIVO INNOVAZIONE

I provvedimenti anti-monopolio hanno anche l’obiettivo di dimostrare che questa volta Pechino intende davvero aprire agli stranieri il mercato dei servizi finanziari. Non a caso negli ultimi giorni in Cina è sbarcata PayPal, prima azienda estera di pagamenti elettronici autorizzata a operare nella Repubblica senza l’obbligo di joint-venture con operatori locali. La società statunitense concentrerà il suo business nelle transazioni con l’estero di importatori e consumatori cinesi, entrando subito in competizione con Alypay e WeChat Pay. Ma c’è dell’altro. Tang Jianwei, un economista della Bank of Communications (il quinto colosso pubblico del credito) ha aggiunto che il governo vuole obbligare i suoi colossi di internet a finanziare la ricerca scientifica di base. «Le grandi imprese tecnologiche in possesso di enormi quantità di dati e algoritmi avanzati devono farsi carico di maggiori responsabilità e spendere di più nell’innovazione tecnologica originale e fondamentale», ha spiegato Tang. La strategia del Partito non si limita a frenare l’espansione di queste aziende private nell’universo fintech, ma vuole spingerle a partecipare – aumentando gli investimenti in ricerca e sviluppo – a quella “innovazione autoctona” (zìzhŭ chuàngxīn) che dovrebbe accelerare la rincorsa della tecnologia cinese per raggiungere le economie avanzate. Sacrificare le attività finanziarie a vantaggio della R&D: nell’ultimo paio d’anni, il presidente cinese, Xi Jinping, ha illustrato questa direttiva nel corso di una serie di incontri con i capitalisti cinesi, invocando la loro lealtà al Partito e il loro aiuto per raggiungere il traguardo della “rinascita nazionale”. E Jack Ma non può fare eccezione.

Wall Street, Zoom e Square, le società che potrebbe replicare il successo di Tesla

Wall Street, Zoom e Square, le società che potrebbe replicare il successo di Tesla
Wall Street, Zoom e Square, le società che potrebbe replicare il successo di Tesla

Piccola oggi, ma con un mercato potenziale di portata globale; portatrice di un servizio nuovo ed essenziale per i suoi clienti; culturalmente pronta per confrontarsi con la scena globale. Questo è il pedigree dell’azienda che sta per ricalcare l’eterna parabola che porta una società a battere ogni paradigma tradizionale di crescita. E a sconvolgere la Borsa con un’impennata strepitosa del titolo. In una parola: la prossima Tesla. Nel corso di poco più di un anno, la costruttrice di auto elettriche ha rivalutato le azioni del 2000%, deciso uno split di cinque titoli in cambio di uno, e infranto il muro della Standard & Poor’s 500, mentre rendeva il suo creatore-proprietario Elon Musk l’uomo più ricco del mondo. È naturale che all’ombra di un tale astro si sia formata una fila di società aspiranti a replicare la traiettoria di tanto successo.

LA FILA DI ASPIRANTI

La ricerca per l’erede della corona inizia appunto dalla S&P500, dove troviamo diverse aziende che premono ai cancelli. La pandemia ha distrutto vecchi equilibri e aperto nuovi varchi propizi per la scalata. Sappiamo tutti che uno dei candidati è Zoom, la piattaforma che si sta impadronendo del settore delle video-conferenze, dall’insegnamento remoto al lavoro a distanza. In dieci anni dal debutto sul Nasdaq, il titolo ha quintuplicato il valore, e la società che oggi vale 114 miliardi di dollari ha già mostrato un attivo di bilancio di 230 milioni negli ultimi dodici mesi. Se fosse già nella lista delle migliori 500 società del listino, galleggerebbe all’interno della fascia superiore del 20% quanto a crescita (500% quest’anno). L’ultimo giudizio che la separa dalla soglia dell’S&P, una promozione che spalanca le porte all’investimento da parte di fondi istituzionali, è la conferma di quanto accadrà dopo la pandemia. Se la chiusura degli uffici e il telelavoro si imporranno come il nuovo standard del post Covid, il decollo definitivo di Zoom sarà inevitabile. La stessa dinamica ha baciato la piattaforma di servizi finanziari Square Inc, creata dal fondatore di Twitter, Jack Dempsey, con lo scopo di aiutare un giovane amico, che non riusciva a vendere una partita di rubinetti in vetro di sua creazione, in quanto non era attrezzato per ricevere pagamenti con card. Cinque anni dopo Square è la base su cui poggiano le casse iPad di negozi e ristoranti, e un servizio di trasferimento interpersonale di fondi dalla crescita esplosiva.

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Fisco, il patto piace: corsa tra le grandi imprese all’intesa anti-accertamento

Fisco, il patto piace: corsa tra le grandi imprese all'intesa anti-accertamento
Fisco, il patto piace: corsa tra le grandi imprese all'intesa anti-accertamento

Per primo è stato il gruppo Ferrero, quello della Nutella. Poi via via, sono arrivati gli altri. L’ultima, ma solo in ordine di tempo, è stata Generali. Sembrano passati secoli da quando i bilanci dei grandi gruppi italiani grondavano di contenziosi miliardari con l’Agenzia delle Entrate, spesso con lo strascico dei procedimenti penali. Erano i tempi del cosiddetto “abuso del diritto”, operazioni lecite riqualificate come elusive dal Fisco solo perché utilizzate per ridurre il carico delle tasse. Da qualche anno a questa parte le cose sono cambiate. L’Agenzia guidata da Ernesto Maria Ruffini e le imprese, soprattutto quelle grandi, hanno iniziato a parlarsi. E ad accordarsi prima di finire in tribunale, sul trattamento fiscale di un’operazione. Lo strumento di questa sorta di patto si chiama tecnicamente “cooperative compliance”. La possibilità di accordarsi con il Fisco oggi è riservata ai soggetti di maggiori dimensioni (allo stato attuale il limite del volume d’affari o di ricavi è fissato in 5 miliardi di euro) dotati di un affidabile sistema di controllo di gestione (Tax control framework). Il regime si fonda sulla interlocuzione costante e preventiva, con la possibilità di pervenire a una comune valutazione delle situazioni in grado di generare rischi fiscali prima della presentazione delle dichiarazioni fiscali, inclusa l’anticipazione del controllo.

L’ADESIONE

Nel 2016, primo anno di applicazione della cooperative compliance, solo 5 società avevano aderito. Tutte del gruppo Ferrero. L’anno dopo altre 14, poi 17, poi altre 13. Il vero boom c’è stato nel 2020, quando il “patto con il Fisco” è stato siglato da ben 20 società con fatturato superiore a 5 miliardi. Ci sono gruppi bancari come Intesa Sanpaolo, Fineco, Unicredit, Bper. Gruppi del settore energetico come Enel, A2A, la branch italiana di Kuwait Petroli, Snam Rete Gas e Shell Italia. Ci sono concessionari come Atlantia e Autostrade per l’Italia. Gruppi della moda come Prada. Società pubbliche del calibro di Leonardo, Ferrovie, Trenitalia, Poste. Ci sono Pirelli, la Nestlé, Nespresso, Novartis Farma, Barilla, San Pellegrino. Il meccanismo, insomma, sta funzionando. Le imprese hanno maggiori certezze e il Fisco riesce anche ad incassare di più senza dover finire in estenuanti contenziosi. Tanto che il direttore centrale dei grandi contribuenti dell’Agenzia, Vincenzo Carbone, ha aperto ad un allargamento della platea della cooperative compliance. «L’ideale – spiega – sarebbe amplificare la platea delle società che possono accedervi». Già dal 2015 (anno di introduzione dell’istituto) ad oggi la platea si è estesa alle società con un volume d’affari superiore a 5 miliardi (prima era superiore a 10 miliardi). «Il nostro obiettivo – prosegue Carbone – sarebbe quello di permettere l’accesso alle società con volumi d’affari dai 100 milioni di euro in su», quindi anche alle Pmi, «ma per questo occorrono più investimenti».

LE ALTRE MISURE

Il regime di cooperative compliance non è l’unico strumento con il quale il Fisco ha teso la mano alle imprese e agli investitori. Lo ha fatto anche con l’interpello per nuovi investimenti introdotto dal decreto internazionalizzazione. Si tratta di uno strumento di interlocuzione preventiva sulla determinazione del costo fiscale legato alla realizzazione in Italia di nuovi business plan di ammontare non inferire a 20 milioni di euro e che siano in grado di produrre effetti duraturi sul livello occupazionale a beneficio del Paese. I risultati sono stati decisamente positivi. Le istanze ricevute sono state 274 e si riferiscono all’implementazione di 72 piani di investimento (di cui 36 progettati da investitori esteri). Il valore totale dei suddetti piani è pari a 38 miliardi di euro (di cui 16 miliardi riconducibili a soggetti non residenti). Il maggior gettito stimato come conseguenza dei piani di investimento oggetto degli interpelli presentati dal 2016 ad oggi è pari a circa 5,5 miliardi euro (di cui circa 1,4 miliardi derivanti da business plan di provenienza estera). Dal 2016 a oggi i piani di investimento presentati hanno determinato ricadute occupazionali pari a circa 82.000 unità. Insomma, il dialogo tra Fisco e imprese paga. In entrambi i lati.

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