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L’impegno delle aziende: in un anno investiti quasi 1,8 miliardi di euro in Corporate social responsability

L'impegno delle aziende: in un anno investiti quasi 1,8 miliardi di euro in Corporate social responsability
L'impegno delle aziende: in un anno investiti quasi 1,8 miliardi di euro in Corporate social responsability

L’ultimo bilancio disponibile è quello fornito dall’Osservatorio Socialis che da quasi vent’anni monitora gli investimenti in Corporate social responsibility (Csr) delle aziende italiane. E ci dice che il totale degli investimenti delle imprese in attività di responsabilità sociale e di attenzione allo sviluppo sostenibile è stato di 1,77 miliardi di euro. Il dato è relativo al 2019 e la rilevazione viene condotta ogni due anni. Si tratta quindi di un valore che ha superato del 25% quello del 2017. A puntare sulla Csr nel corso dello scorso anno è stato il 92% delle aziende con più di 80 dipendenti dislocate sul territorio italiano. Le attività? Formazione (49%), iniziative a favore dei territori dove le aziende sono insediate (47%), investimenti in azioni per diminuire l’impatto ambientale (42%) e per migliorare il risparmio energetico (38%). Sul 2020 incombe una previsione di qualche taglio alle risorse rivolte a queste iniziative. «In piena pandemia al momento della rilevazione dei dati, per il 37% delle aziende la cifra che si era previsto di investire è inferiore a quella del 2019, con molti budget ridotti, annullati o riconvertiti – sostiene Orsi – Di contro c’è un 18% delle imprese che non aveva ancora previsto un budget e dopo l’emergenza sanitaria ha deciso di stanziarne uno: in estrema sintesi siamo di fronte ad una riduzione del 19% degli investimenti, ma le cronache ci raccontano anche di un impegno delle aziende nella solidarietà, nella riconversione delle attività, nel sostegno al sociale senza precedenti. Insomma: distanti ma uniti».

L’OBIETTIVO

Chi sicuramente non ha dato segni di frenata nel suo impegno per la Csr è il maggior gruppo bancario del nostro Paese. Il mese scorso, per il decimo anno consecutivo, Intesa Sanpaolo è stata inclusa – unica banca italiana – negli indici finanziari Dow Jones Sustainability Index World e Dow Jones Sustainability Index Europe di S&P Global, tra i più importanti indici borsistici ESG mondiali ed europei. «Essere sostenibili, per Intesa Sanpaolo, significa andare oltre le dichiarazioni di principi e tradurre i nostri valori in un impegno quotidiano e credibile, frutto di una precisa strategia, di politiche aziendali, di azioni e di comportamenti attenti alle esigenze di chi si relaziona con noi» commenta Elena Flor, responsabile Csr del Gruppo. Nel Piano d’Impresa 2018-2021, Intesa Sanpaolo si è impegnata a rafforzare la propria leadership nella Corporate social responsibility, puntando a diventare un modello di riferimento in termini di sostenibilità e di responsabilità sociale e culturale. «Intendiamo diventare la prima Impact Bank al mondo, con un fondo specifico destinato a garantire prestiti alle categorie che hanno difficoltà di accesso al credito, nonostante il loro potenziale.

La prima iniziativa del nostro Fund for Impact è stata “per Merito”, un “prestito d’onore” per studenti meritevoli. Lanciate nel gennaio 2020 due nuove iniziative, per supportare le madri lavoratrici e le persone ultracinquantenni che hanno perso il lavoro o hanno difficoltà ad accedere al trattamento pensionistico». Nel 2019 sono stati 3,8 miliardi di euro i finanziamenti ad alto impatto sociale erogati. Oltre 200 milioni di euro a supporto del terzo settore e delle imprese sociali, sempre nel 2019. Quasi nove milioni i pasti distribuiti nel periodo 2018-2019 a persone in difficoltà. Coerentemente con questo impegno, Intesa Sanpaolo ha confermato anche nel 2020 di essere una delle pochissime banche al mondo a pubblicare volontariamente in un documento strutturato e organico una rendicontazione infra-annuale di indicatori di natura non finanziaria. L’obiettivo è disporre di un monitoraggio puntuale di progetti, iniziative e indicatori quantitativi di performance nell’ambito Esg (environmental, social, governance): sono stati 2,2 miliardi di euro i finanziamenti ad alto impatto ambientale erogati nel 2019. Il gruppo è stato la prima banca italiana a emettere un Green Bond, per un valore di 500 milioni di euro. Non ultimo: lo scorso anno sono state abbattute del 21,4% le emissioni di CO2 del Gruppo.

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La pensione di scorta si sgonfia. E va peggio per i meno giovani

La pensione di scorta si sgonfia. E va peggio per i meno giovani
La pensione di scorta si sgonfia. E va peggio per i meno giovani

Abbiamo bisogno di tempo. E di crescita economica. In fondo, tempo e crescita sono i fattori che decidono il futuro della pensione. Meglio parlarne al singolare. La pensione è un dato della realtà. Di ciascuno. Le pensioni rischiano di diventare una metafora della complessità inestricabile del futuro. Ma la realtà di questi tempi è dura. E i numeri sono sempre maledettamente testardi. Il crollo del Pil cui stiamo inesorabilmente assistendo ci fa prevedere con certezza una criticità profonda delle prestazioni previdenziali future. «L’andamento del Pil rappresenta il “motore” delle pensioni calcolate con il metodo di calcolo contributivo. Le pensioni dei prossimi quindici anni, che sconteranno maggiormente l’effetto di questa recessione, avranno una quota contributiva sempre più preponderante, nell’ordine del 75% della prestazione». Lo ricorda Luca Di Gialleonardo, di Mefop.Pil che calo vuol dire pensioni più magre.

GLI ELEMENTI

«La crisi in atto, con forti ripercussioni sul mercato del lavoro e sull’economia globale, sicuramente ha anche una ricaduta sulla previdenza, sia di primo pilastro che complementare, sia sull’adeguatezza che sulla sostenibilità» commenta Tiziana Tafaro, presidente del consiglio degli Attuari. E aggiunge: «In merito alla sostenibilità nel secondo pilastro pochi sono i fondi che hanno una garanzia di rendimento, erogano rendite direttamente o hanno una promessa sulla prestazione, la cosiddetta prestazione definita, ma per questi, tenendo conto della normativa sulla solvibilità prevista, potrebbero verificarsi effetti negativi sul bilancio tecnico, a causa della crisi sui rendimenti finanziari, già cominciata prima della pandemia». Proprio quando alla “pensione di scorta” si chiede di performare meglio, per prepararsi a integrare le prestazioni ridotte del primo pilastro, ecco che ci si scontra con le criticità delle basse contribuzioni, delle basse adesioni ai fondi e con i bassi rendimenti del mercato finanziario, che dovrebbero essere la benzina delle future prestazioni “complementari”. Non è strano parlarne oggi, quando si svolge l’assemblea di Assofondipensione .

I NUMERI

Gli ultimi dati messi a disposizione da Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione, confermano la flessione dei versamenti contributivi. Il punto più basso è stato toccato a marzo-aprile. Ma complessivamente nei primi nove mesi del 2020, la differenza del flusso incassato rispetto al corrispondente periodo del 2019 è tornata di poco positiva, nell’ordine dell’1 per cento. Negli anni precedenti, il trend di crescita dei contributi era stato nell’ordine del 5 per cento. «Sono dati che non mettono a rischio il sistema, che resta stabile. Ma è legittimo chiedersi se il sistema sia ancora adeguato» commenta Di Gialleonardo. Che al Mefop si è esercitato in qualche proiezione sulle prestazioni di previdenza complementare. E si scopre che a soffrire di più saranno i lavoratori meno giovani. «Se stimiamo in almeno tre anni l’effetto negativo della crisi economica scatenata dalla pandemia – aggiunge il dirigente Mefop – vedremo ridursi la rendita tra il 9 e il 10% per i lavoratori tra i 30 e i 45 anni, mentre la pensione di scorta potrebbe vedersi ridotta fino al 29% per un lavoratore che sia sulla soglia dei 60 anni». In momenti di incertezza anche un apostolo della previdenza complementare come Sergio Corbello, presidente di Assofondipensione, si fa meno integralista: «La posizione presso un fondo di previdenza complementare non è un “Moloch” intangibile. In caso di effettivo bisogno – ma l’effettività va valutata dal singolo freddamente e razionalmente – l’aderente, senza fornire motivazione alcuna, ha facoltà di richiedere al fondo un’anticipazione sino al 30% del valore della sua posizione individuale. È una scelta dolorosa, che contraddice gli scopi previdenziali per cui si è aderito alla previdenza complementare, ma a mali (economici) estremi, estremi rimedi».

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L’assemblea di Assofondopensioni: fisco più leggero per rilanciare le adesioni

L'assemblea di Assofondopensioni: fisco più leggero per rilanciare le adesioni
L'assemblea di Assofondopensioni: fisco più leggero per rilanciare le adesioni

Giovanni Maggi avrebbe voluto annunciare giovedì 3, all’assemblea annuale di Assofondipensione, un nuovo semestre di silenzio-assenso, che sull’esempio di quanto avvenuto nel 2007, avrebbe potuto consentire un incremento delle adesioni ai fondi pensione. A fine settembre, rispetto alla fine del 2019, nei fondi negoziali si sono registrate circa 90.000 posizioni in più (+2,8%), portandone il totale a 3,250 milioni. Sempre troppo pochi. «Auspichiamo iniziative di rilievo istituzionale volte all’alfabetizzazione in materia previdenziale con l’obiettivo di favorire il rilancio delle adesioni al secondo pilastro, anche se al momento non si ravvisano previsioni nella manovra di bilancio» commenta Maggi. E poi c’è il problema fiscalità. Maggi propone un ritorno a una tassazione agevolata sui rendimenti ottenuti dai fondi pensione. Proposta in linea con quella del think tank “Welfare Italia” (Unipol-Ambrosetti) che propone un’aliquota dell’11,5%: «Nell’ipotesi di periodo di contribuzione medio di 25 anni, si stima che la tassazione agevolata possa generare circa 10 mila euro di rendimenti in più per ciascun aderente. Un incentivo per le sottoscrizioni, che potrebbero aumentare di 2,5 milioni, per un totale di 7 miliardi di euro di risorse aggiuntive destinate alla previdenza complementare».

Irpef, le scadenze: rimborso o aggravio, il meccanismo di fine anno

Irpef, le scadenze: rimborso o aggravio, il meccanismo di fine anno
Irpef, le scadenze: rimborso o aggravio, il meccanismo di fine anno

È una procedura che si ripete ad ogni fine anno: il conguaglio serve ad allineare il prelievo effettuato mese per mese dal sostituto d’imposta (datore di lavoro o ente previdenziale per i pensionati) con la situazione più definitiva che viene verificata a dicembre. Nel caso in cui l’importo complessivo risulti inferiore al dovuto scatterà una trattenuta, se l’esito è di segno opposto ci sarà invece un rimborso. La differenza dipende spesso da elementi di cui il sostituto non è a conoscenza, al di là della retribuzione (o pensione) erogata: ad esempio altri redditi, compresi quelli che possono derivare da precedenti rapporti di lavoro, oppure detrazioni particolari a cui il contribuente ha diritto. Può essere quindi interesse di quest’ultimo comunicare per tempo le tutte informazioni, ad esempio per evitare che gli altri redditi percepiti facciano scattare a fine anno maggiori trattenute. Di regola il datore di lavoro o l’ente previdenziale ai fini del calcolo dell’imposta tengono conto mese per mese, oltre che delle somme da loro erogate, delle detrazioni familiari che spettano al dipendente, quando questo ha provveduto a comunicare la presenza di figli o ad esempio di un coniuge a carico.

I TEMPI

Il conguaglio avviene con la retribuzione di dicembre, che per legge deve essere percepita entro il 12 gennaio dell’anno successivo. Ma naturalmente non è l’ultima parola per quanto riguarda i rapporti di dipendenti e pensionati con il fisco. C’è l’appuntamento annuale con la dichiarazione dei redditi che da quest’anno prevede una tempistica più ampia: è infatti possibile presentare il modello 730 a partire dal mese di maggio fino al 30 settembre. In dichiarazione il lavoratore potrà far valere tutte le detrazioni a cui ha diritto (di cui, come si diceva, normalmente il sostituto d’imposta non è al corrente); ma allo stesso tempo influiranno sul calcolo dell’imposta tutti i redditi, compresi quelli di altri datori (con le rispettive certificazioni) oppure da lavoro autonomo, collaborazioni, affitti e così via.

Irpef, conguaglio “morbido” per i redditi falciati dal virus

Irpef, conguaglio
Irpef, conguaglio "morbido" per i redditi falciati dal virus

Il conguaglio Irpef di fine anno salva i lavoratori dipendenti che hanno visto il proprio reddito ridursi drasticamente per le conseguenze dell’epidemia Covid. E resta un appuntamento da tenere d’occhio per gli altri, anche per l’entrata in vigore, a partire dal mese di luglio, della detassazione per i redditi tra 28 mila e 40 mila euro l’anno, più nota come “taglio del cuneo fiscale”. Una scelta del governo che va a vantaggio in particolare dei lavoratori dipendenti con un reddito medio. Ma che, in analogia con quanto avviene da qualche anno con il bonus 80 euro (ora potenziato a 100 e assorbito nel nuovo assetto) aumenta la rilevanza del reddito complessivo come parametro a cui guardare con attenzione.

LA NORMA

Infatti è proprio questo il parametro che fa scattare o meno il diritto alla maggiorazione che può arrivare a 100 euro al mese (sotto forma di “trattamento integrativo” o di “ulteriore detrazione”). La legge prevede che il datore di lavoro, nella sua veste di sostituto d’imposta, riconosca mese per mese il beneficio in automatico, senza bisogno di una richiesta da parte dell’interessato. Ma a fine anno il diritto può venir meno e questo accade in due casi: reddito finale al di sotto della soglia dell’incapienza, ovvero del livello in cui non sarebbe comunque dovuta Irpef; oppure – situazione opposta – al di sopra dei 40 mila euro. Per chi supera i 28 mila euro di reddito l’effetto può essere anche parziale: in caso di incremento del reddito rispetto al livello previsto si verifica infatti una riduzione del bonus riconosciuto nel secondo semestre dell’anno, mentre in caso di riduzione ci sarà al contrario un aumento della somma spettante: questo perché la cosiddetta “ulteriore detrazione” è decrescente al crescere del reddito e si azzera proprio a quota 40 mila euro. È utile ricordare che a partire dal 2014 la verifica di fine anno, relativa solo al bonus 80 euro, ha creato qualche problema a coloro che lo avevano percepito durante l’anno: con la tornata di dichiarazioni dei redditi del 2019 ad esempio sono stati quasi 1,8 milioni i lavoratori dipendenti che si sono trovati nella situazione di dover restituire in tutto o in parte il credito d’imposta percepito.

LA VERIFICA

Sul piano politico questo meccanismo aveva creato un po’ di scompiglio, soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’istituzione del bonus; anche per l’enfasi che ne aveva accompagnato il debutto. Niente di strano quindi che già all’inizio di quest’anno, al momento di definire la nuova riduzione del cuneo fiscale, il governo avesse messo le mani avanti, prevedendo una formula un po’ più favorevole al contribuente. La verifica prevista per il sostituto d’imposta stavolta è leggermente meno immediata: si tratta infatti di controllare il diritto a entrambi i benefici e ad esempio riconoscere l’ulteriore detrazione nel caso in cui l’incremento del reddito abbia fatto sfumare il trattamento integrativo. Nel caso la somma non dovuta sia superiore ai 60 euro, per evitare un contraccolpo immediato sul cedolino dell’interessato è previsto che il recupero avvenga in 8 rate di uguale importo.

LA GARANZIA

Questo era il meccanismo di tutela pensato per tutti i contribuenti che percepiscono il beneficio fiscale nella sua nuova forma. Quando poi la pandemia ha iniziato a dispiegare i suoi effetti, l’esecutivo è intervenuto nuovamente nel decreto Rilancio con un obiettivo più mirato: evitare la perdita del bonus (80 euro al mese fino a giugno, 100 da luglio in poi) ai lavoratori eventualmente divenuti “incapienti” per effetto dei vari trattamenti di cassa integrazione o dei congedi Covid fruiti. Si tratta del caso in cui il reddito sia sceso sotto gli 8.150 euro annui azzerando l’imposta teorica e togliendo quindi, in condizioni normali, il diritto al bonus stesso. Che invece quest’anno viene erogato e non corre rischi nemmeno con il conguaglio.

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Cina, debutta la prima valuta digitale di Stato contro i bitcoin

Cina, debutta la prima valuta digitale di Stato contro i bitcoin
Cina, debutta la prima valuta digitale di Stato contro i bitcoin

La prima valuta digitale sovrana (emessa cioè da una banca centrale) sta per diventare realtà: si chiamerà yuan digitale e ha iniziato a circolare in Cina. Basata su tecnologia blockchain, è – potenzialmente – una rivoluzione, tanto che il governo l’ha paragonata all’imposizione di una sola moneta legale da parte dalla dinastia Qin (221-206 a.C.), che fu determinante per l’unificazione del Paese. Più di duemila anni dopo, i primi test sono iniziati a Shenzhen, Suzhou, Xiong’an e Chengdu: in queste metropoli centinaia di migliaia di fortunati hanno vinto – in apposite lotterie – 200 yuan digitali, poi spesi in negozi abilitati che hanno incassato complessivamente oltre 2 miliardi di yuan (299 milioni di dollari). La sperimentazione verrà estesa gradualmente, e le Olimpiadi invernali di Pechino 2022 saranno una vetrina per questa moneta del futuro. L’obiettivo dello yuan digitale è contribuire a mantenere il controllo dello Stato su un’economia sempre più online, nella quale commerciali d’ogni genere e scambi di denaro si svolgono – nell’86% dei casi – via internet, grazie ai sistemi creati da operatori privati: Alibaba, che nel 2004 lanciò Alipay, e Tencent, che nel 2013 replicò con WeChat Pay. In un simile contesto – ha dichiarato il capo dell’Istituto di ricerca sulle valute digitali della Banca centrale di Pechino (Pboc), Ma Changchun – lo yuan digitale servirà anche «a combattere le criptovalute e le stablecoin globali» come Bitcoin e Libra, denaro virtuale creato indipendentemente dalle banche centrali che Pechino considera una minaccia alla stabilità del sistema finanziario mondiale. Potrà inoltre contribuire all’internazionalizzazione dello yuan, ma non insidierà il dominio del dollaro. Almeno fino a quando il governo cinese non permetterà la piena convertibilità della sua valuta, sarà difficile capovolgere lo status quo, che vede il 40% delle transazioni tramite il sistema SWIFT effettuate in dollari e soltanto il 2% in yuan.

LA DISTRIBUZIONE

Intanto, a distribuire lo yuan digitale penseranno banche commerciali, compagnie telefoniche di stato, e WeChat Pay e Alipay. Ma il monopolio dei portafogli virtuali di queste ultime sarà insidiato dalla app della Pboc. La differenza con il sistema attualmente in vigore – nel quale sono WeChat Pay e Alipay a gestire i servizi di pagamento elettronico – sarà sostanziale. Con lo yuan digitale infatti lo Stato manterrà il tracciamento di ogni scambio in denaro, garantendo una sicurezza “a prova di bomba”. Ma anche, potenzialmente, il controllo del Partito comunista su qualsiasi attività dei cittadini che preveda uno scambio di moneta. Infatti la Pboc si occuperà, oltre che di determinare le quote di emissione, anche della sicurezza e delle app. Una curiosità: sull’applicazione della Banca centrale per l’utilizzo dello yuan digitale compare – come sulle vecchie banconote – il volto di Mao Zedong: cosa penserebbe il Grande timoniere di quest’ultima invenzione della finanza cinese?

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Bitcoin, la seconda ondata delle criptovalute: perché tornano a volare

Bitcoin, la seconda ondata delle criptovalute: perché tornano a volare
Bitcoin, la seconda ondata delle criptovalute: perché tornano a volare

Erano finite quasi nel dimenticatoio. Considerate una moda passeggera. Messe da parte anche per le mosse delle banche centrali, impegnate a preparare la loro discesa nel campo delle valute digitali. Eppure, in silenzio, le criptovalute, a cominciare da quella più blasonata di tutte, il Bitcoin, sono entrate, per usare un termine preso a prestito dalla pandemia, nella loro seconda ondata. Prendiamo la valuta creata dal misterioso Satoshi Nakamoto, il Bitcoin appunto. Sono giorni che il suo valore ondeggia attorno a 20 mila dollari. Una barriera di valore che, poco più di due anni fa, alla fine del 2017, aveva malamente respinto indietro il Bitcoin dove, sull’onda dell’euforia, lo avevano spinto le compravendite. Da lì, la criptovaluta era scivolata in un burrone senza fine, crollando fino a 4 mila dollari. Scoppio della bolla e fine del sogno. Questa era stata la sentenza pronunciata da molti osservatori. Anche perché tra scandali legati all’acquisto di armi e droga sul darkweb, continui furti nei portafogli elettronici degli investitori, difficoltà a convertire in valute correnti (euro, dollari, eccetera), le criptovalute si erano ormai costruite una cattiva fama. Cosa è cambiato in questo finale del 2020, da spingere di nuovo il Bitcoin ai suoi livelli più alti?

Gli investitori

La prima considerazione che fanno gli analisti di mercato è che siamo in un momento storico in cui tutto cresce: Wall Street è ai massimi, i rendimenti dei titoli di Stato ai minimi. Effetto dell’inondazione di liquidità orchestrata dalle banche centrali. C’è, insomma, fame di rendimenti. Gli operatori finanziari sono disposti a prendersi qualche rischio in più per spuntare rendimenti altrimenti difficili da portare a casa. Proprio qui sta la seconda e principale ragione del rinvigorimento del Bitcoin e delle altre criptovalute: la decisione degli operatori istituzionali di mettere piede in questo mondo. L’inizio di questa rivoluzione avrebbe anche una data: il 21 ottobre 2020. È il giorno in cui il gigante dei pagamenti on line, PayPal, ha deciso di permettere ai suoi clienti di comprare e vendere Bitcoin. Insomma, si è rotto un argine. Uno degli ostacoli principali che le criptovalute hanno trovato sulla loro strada, è la difficoltà di utilizzarle come moneta di scambio. Darkweb a parte, e nonostante siano nati diversi punti vendita persino fisici disposti ad accettare pagamenti in Bitcoin, la verità è che all’inizio lo strumento è stato più vissuto come un investimento speculativo e rischioso, piuttosto che come una moneta per fare acquisti. Troppo complicato e con oscillazioni di valore troppo repentine. L’arrivo di Paypal con i suoi 350 milioni di utenti, risolverebbe almeno il primo dei due problemi. Così le transazioni, accanto agli hedge fund da tempo presenti sulle piattaforme di scambio, hanno cominciato a farsi vedere anche operatori istituzionali. Che rispetto al 2017, quando ci fu lo scoppio della bolla, hanno qualche garanzia in più. I primi “passaggi” sono avvenuti sul Chicago Mercantile Exchange (CME), dove sono negoziati i futures sui Bitcoin, diventati lo strumento derivato su valute digitali più liquido del mondo. Il CME è una Borsa valori domiciliata negli Usa, ed è regolamentata sotto la supervisione della Commodity Futures Trading Commission. A differenza, insomma, dei normali scambi di Bitcoin su blockchain, il CME è collegato a un’infrastruttura di compensazione consolidata. In questo mercato, regolamentato e liquido, gli investitori istituzionali possono operare con maggiore tranquillità, rispetto all’acquisto e alla detenzione diretta di criptovalute. Un mercato che nel 2017 non esisteva.

Le oscillazioni

Nonostante questo, tuttavia i Bitcoin restano qualcosa da maneggiare con cura. Soprattutto per gli investitori retail, le famiglie. Le oscillazioni restano ancora forti e possono sì portare a incrementi di capitale, ma anche a consistenti perdite. Sul web e sui social impazzano offerte molto spinte a investire nei Bitcoin e nelle altre criptovalute, promettendo facili guadagni e vite da sogno senza fatica. La realtà è un’altra. Come dimostrano anche le ultime sentenze della magistratura alla quale si sono rivolti risparmiatori scottati dall’esperienza. La Corte di Cassazione, in una recentissima sentenza, ha stabilito che i Bitcoin non sono solo moneta virtuale, ma anche un mezzo di investimento. E dunque chi li propone deve rispettare tutte le tutele del Testo unico della finanza. Un avvertimento per chi li offre. Ma anche per chi compra.

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Auto e titoli green, Cina ma anche oro: come investire con il portafoglio di fine anno

Auto e titoli green, Cina ma anche oro: come investire con il portafoglio di fine anno
Auto e titoli green, Cina ma anche oro: come investire con il portafoglio di fine anno

Il ritmo della pandemia, la fase post presidenziali Usa, le banche centrali e il petrolio. Sono questi i quattro ingredienti da mescolare con cura per Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte, per intercettare l’evoluzione dei mercati dei prossimi mesi e disegnare il portafoglio di quasi fine anno.

AZIONI

«Sui mercati azionari il contesto, almeno fino al primo semestre 2021, appare mediamente ancora favorevole». Grazie al sostegno delle banche centrali e a quello fiscale, tra l’insediamento della nuova amministrazione Biden e il superamento degli ostacoli per la partenza del Next Generation Eu. Un quadro a cui si aggiunge l’ottimismo per i buoni risultati sui vaccini e le terapie. Attenzione, però, avverte Cesarano: «Gli ultimi giorni dell’anno/primi giorni del 2021 potrebbero essere interessati da prese di profitto». Colpa delle «vendite di fine anno da parte ad esempio dei fondi sovrani per ribilanciare i portafogli riducendo il peso dell’equity fortemente salito dopo il repentino recupero del trimestre in corso». Dopo la forte rotazione settoriale verso il value (più stabile), il comparto growth (ad alta crescita) e soprattutto tech potrebbe tuttavia avere una temporanea rivincita nel primo trimestre, quando lo “stay at home” potrebbe tornare di moda ed essere cavalcato anche con temi specifici (come, ad esempio, quello dei video giochi). «Un portafoglio ideale per i prossimi 3-4 mesi pertanto potrebbe contemplare auto, bancario, oil per la parte europea, con l’aggiunta di alcuni temi più strutturali come infrastrutture, clean energy, digitale, batterie e azionario cinese». «La sovraperformance dell’economia cinese (di fatto indenne dalla seconda ondata pandemica) dovrebbe essere sempre più evidente, man a mano che partirà anche il nuovo piano a 5 anni dal prossimo anno lunare che inizia a febbraio. Inoltre, la componente tech potrebbe essere sempre più declinata nei portafogli con un mix Usa/Cina.

BOND

La ricerca del rendimento potrebbe essere soddisfatta con un mix di corporate bond Usa a cambio coperto, obbligazioni bancarie euro e, in parte, bond emergenti in valuta locale (ipotizzando il ritorno del dollaro debole nel 2021).

ORO

Vale anche l’oro. Ma meglio «acquistare a fine anno oppure tra marzo ed aprile». Perché il metallo giallo potrebbe raggiungere un picco al rialzo per il Capodanno lunare del 12 febbraio.

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Trasporti e investimenti, Ferrovie dello Stato emette green bond per rinnovare i treni

Trasporti e investimenti, Ferrovie dello Stato emette green bond per rinnovare i treni
Trasporti e investimenti, Ferrovie dello Stato emette green bond per rinnovare i treni

La caccia grossa ai bond social e green è già partita. Lo dice il balzo del 35% dei fondi d’investimento sostenibili a livello globale, con asset gestiti per 1.000 miliardi di dollari. Soltanto sul fronte “verde”, le emissioni hanno raggiunto uno stock in circolazione pari a 760 miliardi di euro, racconta l’ultima indagine di Intesa Sanpaolo. Quest’anno le emissioni nette sono cresciute del 22% a quota 214 miliardi. Adesso anche i governi sono pronti a fare la loro parte. E l’Italia potrebbe partire a gennaio per finanziare energie rinnovabili, trasporti sostenibili ed economia circolare. Già da tempo, invece, società come Fs hanno puntato sulla vocazione alla sostenibilità per guardare al futuro. Ora più che mai l’emergenza sanitaria consegna a queste imprese la missione, ma anche l’opportunità, di costruire la mobilità del futuro. Il Recovery Fund avrà il suo ruolo in Italia, a patto che si sappia sfruttare a dovere la leva, ma il gruppo guidato da Gianfranco Battisti giocherà anche la carta della finanza sostenibile, già sperimenta con successo dal 2017. «Il nostro obiettivo – dice Battisti – è continuare a innovare, verso un nuovo modello di business basato sulla centralità e il benessere delle persone per consegnare alle nuove generazioni un Paese più competitivo e sostenibile».

LA ROADMAP

Il gruppo Fs è stato il primo operatore ferroviario in Europa a emettere green bond per l’acquisto di treni regionali, Alta Velocità e merci ad alta efficienza energetica e ad alto tasso di riciclabilità. Ne ha emessi due, uno nel 2017 e uno nel 2019, per un valore di 1,3 miliardi. Il secondo bond, da 700 milioni, ha raggiunto ordini fino a 2,5 miliardi da 156 investitori, il 65% dall’estero, e sarà dedicato per oltre il 70%, all’acquisto dei treni regionali Pop e Rock. Novità assoluta sono le locomotive elettriche e i carri di ultima generazione per il trasporto merci. Il cambio di passo è evidente. I convogli di ultima generazione di Trenitalia Pop e Rock sono riciclabili al 97% e permettono di consumare fino al 30% di energia in meno. Il rinnovo della flotta, che sarà la più giovane in Europa, sfiorerà l’80% entro cinque anni: arriveranno oltre 600 treni, anticipando la consegna di 239 convogli nel 2023 invece che nel 2025. Sempre nel trasporto regionale, arriveranno poi i treni bimodali, finanziati da Bei. E a seguire l’accelerazione del rinnovo del parco autobus.

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Risparmi, oltre 100mila famiglie in più si sono affidate alle gestioni

Risparmi, oltre 100mila famiglie in più si sono affidate alle gestioni
Risparmi, oltre 100mila famiglie in più si sono affidate alle gestioni

Il 2020 prosegue in un clima di volatilità che destabilizza e ingessa risparmiatori e famiglie. Nonostante ciò, sono oltre 100 mila i nuovi risparmiatori che si sono affidati alla consulenza per pianificare investimenti futuri. Un segnale positivo che si riflette sulla raccolta di ottobre che archivia 3,5 miliardi e una crescita del 2,5% sullo scorso anno. Le scelte di investimento sul gestito (1 miliardo) vedono una preferenza per i prodotti previdenziali mentre per la componente amministrata (2,5 miliardi) prevale la vendita di titoli di debito (corporate e buoni di Stato).

Conti correnti e depositi incassano liquidità per 2,8 miliardi, valore determinato dalla crescita del numero di famiglie clienti e destinato ad alimentare nuove pianificazioni di investimento. Nonostante il consistente afflusso di liquidità causa pandemia, guardando ai primi nove mesi del 2020 la liquidità raccolta è diminuita (23%) e nei portafogli degli investitori resta ferma al 17%, equivalente al dato pre Covid.